Gualdoni Flaminio

Vicolo dei Lavandai. Dialogo con Arnaldo Pomodoro

Pubblicato il: 28 Giugno 2012

“Verba volant scripta manent”. Il discorso di Caio Tito al senato romano che ha dato luogo al celeberrimo proverbio lo possiamo intendere non soltanto come invito alla prudenza ma semmai come necessità di mettere nero su bianco delle parole che altrimenti finirebbero presto nel dimenticatoio. Ci sono parole anche di celebri artisti contemporanei che – paradossi di  una presunta società dell’informazione – effettivamente rischiano di essere presto dimenticate se non si torna ad una documentazione cartacea spesso spacciata per obsoleta; tanto più in un’Italia che si caratterizza per istituzioni governative sempre meno generose nei confronti della cultura, se non proprio menefreghiste, ed una classe intellettuale anch’essa spesso autoreferenziale. Sulla scorta di queste considerazioni, ma non soltanto, Gino Fienga nella sua postfazione, oltre a ricordare il grande interesse critico che le opere di Pomodoro hanno esercitato su di lui fin dalle sue prime esplorazioni nel Montefeltro e a San Leo, ha spiegato con chiarezza le ragioni per le quali ha voluto pubblicare “Vicolo dei lavandai”: un  piccolo libro edito dalla Con-fine (collana Oi dialogoi) e rappresentato appunto da un dialogo tra il famoso scultore Arnaldo Pomodoro e il critico Flaminio Gualdoni.

“Vicolo dei Lavandai”, giusto per precisare, è la “casa della vita” di Pomodoro, dove l’artista, giunto a Milano nel 1954,  a partire dalla fine degli anni ’60 ha svolto la sua attività. E dove la Fondazione, nata ufficialmente il 7 aprile 1995, ha avuto da subito la sua sede e dove si è concentrata la parte dedicata alla documentazione e all’archivio. Una zona della città che lo stesso Pomodoro (si veda la quarta di copertina) così racconta: “il mio sogno è stato proprio quello di radicarmi in questa zona che trovo fra le più belle della città, dove ancora si possono vedere le pietre antiche su cui si lavava e gli attracchi dove si legavano i barconi. Milano era tutta una città di canali. Ne parla anche Hemingway in uno dei Quarantanove racconti, In un altro paese, che è tutto un muoversi tra corsi d’acqua e ponti”. Poi negli anni, come ricorda l’artista sollecitato dalle domande di Gualdoni, gli spazi espositivi destinati al pubblico si sono ampliati a Rozzano e poi in via Solari. Pochi mesi fa però si è giunti alla chiusura di quest’ultimo complesso. Come scrive Fienga “perdita, non solo per la città, ma per la cultura in generale, di un luogo che aveva un approccio intellettuale, nei confronti  del rapporto attività-comunità, oggi ancora assai raro”. Era un luogo che richiedeva molto impegno in termini di energie umane e di risorse economiche, paradigma di quello che poteva e potrebbe essere uno spazio espositivo o culturale che, “se gestiti con un sano e moderno approccio manageriale, possono riscattarsi dalla schiavitù del finanziamento pubblico e diventare essi stessi strumenti propulsori e finanziatori di novità, ricerca e sperimentazione”.

Insomma, a fronte di finanziamenti sempre più esigui e – credo – motivati, piuttosto che da un’effettiva scarsità di risorse, da un interlocutore pubblico che ormai ha scelto altre parole d’ordine per dilapidare quello che ci resta, Via Solari rappresentava davvero un modello che teneva insieme l’idea di Fondazione e di spazio espositivo. Ancora Fienga: “Una realtà in continuo rapporto con l’esterno, non una struttura museale statica e conservativa, ma un vero e proprio laboratorio di cultura in grado di creare, con la società in cui è calato, una perfetta integrazione, per un continuo scambio di sollecitazioni e di energie che la portassero ad essere un solo paesaggio aperto”. Il libro-intervista rappresenta quindi il racconto di un modello di lavoro d’artista, un percorso “in progress”, propositivo, dove peraltro è chiara la differenza tra la vocazione di una fondazione, quella di un museo e quella di un centro espositivo. Ma, come sottolineato all’unisono da Gualdoni e da Pomodoro, nel nostro paese quei profili tendono sempre a sovrapporsi. Il motivo? Si torna al discorso iniziale: le “difficoltà istituzionali in cui l’Italia si dibatte da tempo” (pag. 33). Probabile che anche in questo caso una citazione di Gillo Dorfles ci stia proprio bene: “In Italia la cultura è sempre stata una Cenerentola, siamo un Paese che non ha mai saputo tener conto dei valori che possiede”.

Edizione esaminata e brevi note

Flaminio Gualdoni (Cuggiono, Milano, 1954), Dal 1980 insegna storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano. Dal 1988 al 1994 dirige la Galleria Civica di Modena, dal 1995 al 1999 i Musei Civici di Varese, nel 2005-2006 la Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano. E’ commissario alla 44° Biennale di Venezia, 1990. Dal 1985 al 2011 collabora alle pagine culturali del “Corriere della Sera” e dal 2006 tiene la rubrica “Il criptico d’arte” in “Il Giornale dell’arte”. Nel 2011 realizza per il web con Luca Lampo l’Atlante dell’arte italiana, www.atlantedellarteitaliana.it

Arnaldo Pomodoro (Morciano di Romagna, 1926), scultore, ha vissuto l’infanzia e la formazione a Pesaro. Dal 1954 vive e lavora a Milano. Le sue opere sono presenti in spazi urbani in Italia e all’estero. È socio onorario dell’Accademia di Brera, di Milano. Ha insegnato nei dipartimenti d’arte di università statunitensi, quali di Stanford, California, Berkely e Mills College. E’ fratello del noto scultore Giò Pomodoro.

Flaminio Gualdoni, “Vicolo dei Lavandai. Dialogo con Arnaldo Pomodoro”. Postfazione di Gino Fienga, con-fine edizioni (Collana Oi Dialogoi), Monghidoro 2012, pagg. 48

Luca Menichetti. Lankelot, giugno 2012