Margolis-Edelman Alina

Una giovinezza nel ghetto di Varsavia

Pubblicato il: 10 Marzo 2014

“Una giovinezza nel ghetto di Varsavia” di Alina Margolis-Edelman ci è stato presentato come un libro di memorie e sicuramente lo è. Ma se lo si volesse definire in altro modo, vuoi come un libro di racconti, in virtù della struttura narrativa caratterizzata dalla frequente sovrapposizione di un recente passato e del futuro dopoguerra, oppure proprio come un libro di argomento storico, probabilmente non si farebbe un torto all’autrice. Un’opera che al di là di ogni definizione è una bella pagina di letteratura; e tutto il resto viene di conseguenza. Pagine prive di particolari artifici linguistici votati al melodrammatico, dove la sobrietà e la semplicità dello stile si rivelano efficaci nel descrivere quanto accaduto agli ebrei negli anni della guerra, tanto più dal punto di vista della giovane Alina Margolis-Edelman: dopo aver vissuto un’infanzia priva di particolari problemi, senza aver subito prima di allora veri e propri soprusi antisemiti, ecco ritrovarsi, quasi stupiti, nel pieno della repressione nazista. E’ il racconto di una ragazzina nata e vissuta in un ambiente privilegiato, facoltoso, alto borghese, padre e madre medici, di cultura laica, emancipati, spesso distratti, assenti. Ambiente privilegiato anche dal punto di vista culturale: il pedagogo Marian Falski era di casa e proprio ad Alina fu dedicato l’abbecedario che per decenni i bambini polacchi hanno usato alle elementari. Proprio in relazione a questo particolare contesto leggiamo dalla postfazione di Laura Quercioli Mincer: “Uno dei tanti elementi di interesse di questo libro sta anche, così credo, nell’emergere dalle sue pagine, accanto alla descrizione della sofferenza e dell’emarginazione, del contorno di una componente del tutto particolare della società polacca, una formazione quasi cancellata dalla memoria collettiva della nazione. Decenni di cosiddetto socialismo reale, di prevalere di un’autorappresentazione della Polonia come paese di monolitico e austero cattolicesimo, accompagnate dall’immagine, spesso imposta dall’esterno, di una Polonia patria di un altrettanto monolitico antisemitismo, hanno quasi rimosso dal discorso culturale di – e su – questo paese la sua pur importante tradizione laica e democratica. Nella sua narrazione Margolis testimonia non solo dell’eroismo ebraico ma anche della presenza di questa grande e ramificata componente socialista, aconfessionale, bundista, i cui attori, ebrei e polacchi, erano spesso uniti da legami di amicizia, collaborazione, reciproco aiuto. Fra i suoi rappresentanti più noti e illustri c’è senza dubbio Junusz Korczak, che fra i suoi motti aveva una frase certamente condivisa da Alina Margolis: Non ci è concesso lasciare il mondo così com’è” (pag. 209).

Tornando al racconto di Alina Margolis-Edelman: se ci appare una prima giovinezza nel complesso con pochi pensieri, felice, almeno da quello che si coglie nelle prime pagine, senza soluzione di continuità, senza che venga approfondito un particolare momento di svolta, ecco l’arrivo improvviso del nazismo, che rivela appunto un’identità fino ad allora quasi ignorata, anche in virtù dell’educazione laica ricevuta. Esperienze che si fanno via via sempre più drammatiche pur dalla posizione privilegiata di allieva della Scuola Americana per Infermiere. Una volta scomparso il padre (si saprà poi fucilato) la famiglia si è ritrovata dalla natia Lódź nel ghetto di Varsavia; e qui la giovane Alina, oltre a studiare in un ambiente che nonostante tutto le ha consentito per qualche tempo momenti di spensieratezza e di pura incoscienza, ha iniziato ad aiutare come poteva i connazionali, consegnando soldi e materiale a chi organizzava la rivolta. Poi presto, ancora una volta senza soluzione di continuità, i massacri, le battute di caccia all’uomo dei nazisti, la condivisione di fame, sporcizia, la perenne presenza della morte: “E subito dopo il gesto di lei: afferrò un cuscino del letto accanto e lo premette sul neonato. Il vagito adesso si sentiva appena. L’azione era finita. Da lontano rimbombavano ancora gli spari” (pag. 82). Morte a volte auspicata nella maniera più dignitosa possibile, con i genitori che raccomandavano i figli di usare la fiala di veleno nel caso fossero stati catturati dai nazisti.  La madre di Alina per due volte riuscirà a farla passare clandestinamente nella parte ariana di Varsavia, e alla fine la giovane infermiera si ritroverà ospite di una famiglia di polacchi antisemiti che ignorano la sua identità. E’ inizialmente da lontano che vedrà la rivolta del ghetto, e da quel momento si può dire che la sua coscienza ebraica si sia finalmente rivelata e definita. Al termine della ribellione, sempre nelle vesti di infermiera, porterà in salvo il medico Marek Edelman, comandante in seconda dell’insurrezione, che poi diventerà suo marito.

I tanti personaggi che animano le pagine delle memorie di Alina Margolis, qualora sopravvissuti, ci vengono raccontati sia durante la pericolosa vita nel ghetto, sia dopo la fine della guerra, sempre grazie alla ricordata sovrapposizione temporale e di flashback. Altrimenti al ricordo dell’amico o dell’amica conosciuti durante la prima giovinezza segue rapido un finale che ricorda la loro morte violenta. Ma non soltanto ebrei. Gli Strabinski, la famiglia di antisemiti che avevano dato ospitalità all’ebrea Alina, senza sapere che fosse ebrea, tornano alla fine del libro: “Non appena la guerra finì andammo a trovarli, io e la mamma. Fu molto difficile trovare il loro indirizzo. Abitavano al quarto piano di una misera palazzina scrostata nel quartiere di Praga. La casa di Ursynów non esisteva più, era stata colpita da una bomba. La mamma voleva ringraziarli, se ero viva era per merito loro. Suonammo alla porta, ci aprì il signore. Lanciò uno sguardo a me, poi alla mamma, e ci sbattè con violenza la porta in faccia” (pag. 187). In questo caso una famiglia che ha salvato vite altrui inconsapevolmente e a quanto pare proprio senza volerlo. Discorso ben diverso per i coniugi Edelman: lui, unico comandante sopravvissuto alla rivolta del ghetto, perseguitato anche dai comunisti per le sue idee democratiche, “amava occuparsi della vita, come esponente dell’umanesimo socialista e come medico” (cit. da gariwo.net); lei, laureata in medicina, si è poi dedicata “come pediatra, per tutta la vita ai bambini più disagiati”.

Edizione esaminata e brevi note

Alina Margolis-Edelman (1922-2008) pediatra e scrittrice polacca. Dopo la guerra si è laureata in medicina e ha sposato Marek Edelman, il vicecomandante dell’insurrezione del ghetto di Varsavia. Nel 1969, a seguito delle purghe antisemite orchestrate dal generale Moczar, ha lasciato la Polonia e si è trasferita in Francia, dove è stata tra i fondatori dell’associazione Medici nel mondo. Ha lavorato in Bosnia, Afghanistan, Ciad.

Alina Margolis-Edelman, “Una giovinezza nel ghetto di Varsavia”, Giuntina, Firenze 2014, pag. 224. Traduzione di Laura Quercioli Mincer.

Luca Menichetti. Lankelot, marzo 2014