“Gli uomini ci rubano tutto: il nostro tempo, i nostri soldi, il nostro spazio, le nostre idee. Il nostro corpo”.
Se questa vi sembra un’affermazione forte, dovete sapere che non è la più radicale nel campionario di idee radicali che costellano il libro di Marina Terragni, intitolato — per l’appunto — Gli uomini ci rubano tutto e edito da Sonzogno.
Gli uomini ci rubano tutto, dunque, e si prendono anche il femminismo: questa la ruberia più beffarda. Il femminismo al fianco degli uomini diventa presto degli uomini, che lo usano a loro vantaggio, lo piegano ai loro interessi, specie economici, cercano di inglobarlo nel neoliberalismo fino a farlo scomparire. “Squallidi provocatori e imbroglioni che spiavano le Femministe […] tentando di metterci le une contro le altre” scrive Marina citando Mary Daly (pag.87). Oppure “si tratta di maschi che nel fra-uomini hanno fallito […] e cercano una seconda occasione nel fra-donne […] uomini castrati” (pag.85).
Da qui il concetto di un femminismo da combattere (non al fianco, ma) contro. Contro tutto il genere maschile, o meglio, contro chiunque rechi tra le gambe un pene. Un femminismo inteso come vagina contro pene. Vagina — sia chiaro — rigorosamente naturale. Un femminismo, quindi, gender critical (che esclude trans e queer) secondo cui una transwoman non è altro che “un maschio etero con la parrucca e i tacchi a spillo”, un maschio che “cambia forma ma non sostanza” (pag.124). Un femminismo che si batte per affermare l’esistenza di un solo tipo di donna, la real woman, quella che può dichiarare con fierezza: “le mie tette fanno latte. Sono nata capace di fare un bambino […] Sono una fottuta Dea. Per natura. Tu non lo sei” (pag.103).
Una concezione rancorosa, recriminante. Ma una rabbia necessaria, afferma l’autrice. Necessaria alla solidarietà tra donne, “è per questo che non ci spostiamo volentieri da lì (dalla rabbia N.d.R.). Per restare unite, per non litigare” (pag.63).
Questa idea di femminismo come separazione, raggiunge l’apice, credo, nel capitolo in cui si accenna all’apertura di un ambulatorio milanese per sole donne. Iniziativa che suscita non poche critiche, lamenta la Terragni. Qualcuno — chiaramente un uomo — avrebbe obiettato: «Vuol dire che se mi sentissi male davanti alla loro porta mi lascerebbero morire lì?». Marina elude la risposta spostando la questione sul piano simbolico. Ma il capitolo si intitola, significativamente, Lasciarli morire lì (pag.87).
Ecco la soluzione, quindi, lasciarli morire lì, gli uomini. Sottrarsi al loro sguardo, “spiraleggiare via”. In una parola: ignorarli. Noi “bastiamo perfettamente a noi stesse. Sono loro a non farcela” (pag.89).
In uno slancio di complottismo (seppur non dichiarato, sottinteso) l’autrice tira in ballo la Big Pharma, ma anche Google e Amazon. Sono loro che cospirano nell’intento di “queerizzare” il mondo? Certo è, afferma Marina, che la medicalizzazione dei corpi (cure ormonali, chirurgia…) permette di realizzare formidabili profitti. Inoltre, l’individuo neutro, fluido, sembrerebbe essere il consumatore ideale, bersaglio perfetto per le più disparate offerte commerciali. Tant’è che resistenza al capitalismo e lotta contro i queer coincidono, afferma l’autrice, citando Illich. Obiettivo finale di questo disegno: far scomparire le donne, normalizzandole. Giacché la donna è il nemico principale del soggetto neoliberale. E avverte: se le donne non escono dal raggio del controllo maschile si arriverà all’estinzione della razza umana.
Ma non è tanto questo substrato di complottismo che mi colpisce del libro, quanto piuttosto le sostanziali contraddizioni che a mio avviso lo permeano. Quando l’autrice afferma l’urgenza di abbandonare la logica del dominio: “Gli uomini hanno paura di stare sotto, questo non è il nostro gioco, il dominio, la sottomissione non ci appartengono” (pag.36), ma poi non si risparmia dal definire la donna the first sex, “l’umano principale” (pag.157), arrivando persino a risalire all’aspetto biologico, dove l’embrione all’origine è femmina, e solo un “notevole impegno” del cromosoma Y lo trasforma in maschio.
Ma ecco la contraddizione di fondo: scrivere un libro contro gli uomini, per sottrarsi allo sguardo degli uomini, per dire quanto sia importante che le donne ignorino gli uomini. Scrivo un libro per dire a tutti quanto io ti stia ignorando.
Aggrappandosi alle idee di note femministe radicali (Mary Daly, Carla Lonzi, Valerie Solanas…) e citando fin troppo spesso Elena Ferrante, Marina si lancia in un’analisi sconnessa e paranoica che sembra non giungere mai al punto. E che però ha a suo favore una scrittura appassionata, ritmata, scandita da frasi brevi, capitoli brevi. Una scrittura che trascina, anche quando inizia a dolerti il collo per la tensione del disaccordo, e che al di là del disaccordo, o forse proprio per la forza del disaccordo, spinge a riflettere.
Dati numerici non supportati da fonti, tanti — troppi — argomenti non sufficientemente argomentati e l’uso frequente della parola “verità” fanno cadere il discorso in una serie di esternazioni dogmatiche e propagandistiche. Un femminismo integralista, insomma, che sovrabbonda di istanze repressive: oltre a escludere trans e queer, si schiera contro prostituzione; pornografia; bordelli di bambole; assistenza sessuale ai disabili; sexy shop; fecondazione in vitro; maternità surrogata; donazione di ovociti… Così contro un tale polverone di tematiche, da far perdere di vista la questione sostanziale da regolare tra i sessi, che voglio ancora credere sia il rispetto e l’uguaglianza.
Edizione esaminata e brevi note
Marina Terragni milanese, è giornalista e blogger. È autrice di vari saggi, tra cui La scomparsa delle donne (Mondadori 2007), Un gioco da ragazze (Rizzoli 2012), Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli (VandA 2016).
Marina Terragni, Gli uomini ci rubano tutto. Riprendersi il corpo, il femminismo, il mondo: un manifesto, Sonzogno, 2018
Follow Us