“Non mi sento comodamente e presuntuosamente, dalla parte giusta. La parte giusta non è un luogo dove stare; è, piuttosto, un orizzonte da raggiungere. Insieme. Non mostrando i muscoli e accanendosi contro la fragilità degli altri” (pp.9). Così Don Luigi Ciotti a premessa della sua lettera al “razzista” contemporaneo, che subito sfugge al rischio di ridurre il suo scritto a classico pamphlet e polemica spicciola. Premessa, a ben vedere, necessaria perché proprio in assenza di una politica che si possa definire tale, ovvero dotata di una visione complessiva, caratterizzata da una solida cultura interdisciplinare e non mero strumento acchiappavoti, ormai la replica ad ogni appello umanitario e alla razionalità (tradotto: non fatevi infinocchiare dalle fake news) si traduce in una sola parola: buonismo. Il tutto condito da mantra tipo “e allora se siete bravi prendeteli a casa vostra”. Il fatto è che Don Luigi Ciotti non è un pariolino radical chic, tanta chiacchera e distintivo, gli appelli alla solidarietà dalle parti di Libera, ormai da decenni, non rimangono appelli e quindi chi “se li è presi a casa sua” ha tutti i titoli per poter parlare di razzismo e di intolleranza. Probabilmente fino a poco tempo fa, in Italia, non era neppure il caso di tirare in ballo il razzismo – tradizioni più nelle corde di aree geografiche tipo Alabama o Tennessee. – ma piuttosto forme di ignoranza e di intolleranza. Qualcosa però in questi anni è cambiato: basti pensare a coloro che popolano i social network e che, mostrando tutto il loro accanimento “cattivista”, sembra proprio rappresentino le cavie privilegiate dei più spregiudicati “imprenditori della paura”. Una propaganda che trova terreno fertile perché, con buona pace degli ottimisti ad oltranza, di un liberismo che etimologicamente fa il paio con parole in libertà, “se ci si guarda intorno e non ci si lascia ingannare dai ‘ristoranti pieni’ che periodicamente qualcuno evoca, c’è una povertà reale, crescente, diffusa, E, soprattutto c’è la disuguaglianza, che è più intollerabile della povertà […] il lavoro, quando c’è, è sempre più precario e senza diritti; venti milioni di italiani (pari a uno su tre) sono analfabeti funzionali, cioè – secondo la definizione dell’Unesco – incapaci di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie potenzialità” (pp.12).
Luigi Ciotti piuttosto – sempre con un linguaggio garbato e tutt’altro che mellifluo – ha voluto ricondurre i problemi connessi alla convivenza e alla diversità ad una dimensione razionale, depurata da narrazioni tossiche e fasulle. Una tossicità che nasce anche e soprattutto – ripetiamolo – a causa di una politica “dal fiato corto”, sostanzialmente latitante, che dovrebbe invece proporre e attuare soluzioni ragionevoli: non certo diversità antropologiche dei migranti ma un “deficit di programmazione che li ha lasciati [ndr: i migranti] senza seri interventi di sostegno, ammucchiati in grandi strutture inadeguate, senza possibilità di lavoro, esposti alle proposte della malavita organizzata (italiana e straniera). Creando così una sorta di polveriera pronta ad esplodere” (pp.27). Situazioni che creano legittime paure – “se uno ha paura non basta dirgli che non ne deve avere”, (pp.41) – ma che hanno anche instillato facili generalizzazioni e il pregiudizio, questo davvero razzistico, di un’umanità geneticamente diversa, inferiore. Una polveriera quella evocata da Ciotti che, lo dovremmo sapere, è alimentata anche dalle cosiddette fake news: gli strumenti più beceri, usati per scatenare la rabbia sociale contro i nuovi capri espiatori. Il fondatore di Libera ricorda la famosa questione dei 35 euro a migrante: a fronte di reali 2,50 euro a migrante, una somma spesa, “per i richiedenti asilo, ma in misura superiore al 90 per cento a beneficio di italiani” (pp.33).
Di fronte a queste meschinità, a questo volare rasoterra – che si alimenta di “aiutiamoli a casa loro”, “prima gli italiani” ed altri slogan a costo zero – la “lettera a un razzista” riafferma l’assoluta necessità di una politica che parli con i fatti, aliena da luoghi comuni e facile propaganda, con uno sguardo quindi volto alle nuove generazioni, non al successo delle prossime elezioni, che vogliono essere vinte alimentando a dismisura le paure degli elettori. Nel libro magari non viene scritto esplicitamente ma il lettore ha sotto gli occhi tutti gli elementi di un circolo vizioso: una politica basata sulla chiacchiera e la demonizzazione che non ha alcun interesse a risolvere i problemi – Ciotti sostanzialmente ci ricorda come smantellare le “esperienze di accoglienza più significative” crei soltanto ulteriori problemi, disagio, nuove paure e perciò più voti destinati a chi fa la faccia feroce – e media che persistono a proporre “narrazioni”, banali semplificazioni, di fatto amplificando l’idea che solo e soltanto con la repressione si possa ottenere sicurezza.
Se le parole d’ordine devono essere giustizia e umanità, la cultura rappresenta l’unico strumento utile per governare il presente e il futuro: “perché un tempo complesso, soggetto a continue e rapide mutazioni richiede parole e pensieri che lo sappiano interpretare, che sappiano orientarci nel suo groviglio. Se manca la cultura prevalgono le approssimazioni, le bufale, la propaganda” (pp.72). Un’idea di cultura che viene intesa anche come capacità di dire dei “No” importanti. Da questo punto di vista la storia intellettuale di Luigi Ciotti non ha mai avuto a che fare con quei facili opportunismi che hanno invece caratterizzato le più recenti figuracce del centrosinistra, quell’area politica teoricamente più impermeabile a un’idea muscolare della politica. Ricordiamo cosa diceva della riforma costituzionale renziana (ad personam) con “Io dico NO” (edito sempre da EGA); oppure quando esprimeva legittime perplessità riguardo le vessazioni subite dalla popolazione della Val di Susa; tutto a causa di un’opera tanto devastante quando utile soltanto ad un classe di ipocriti prenditori. Da questo punto di vista possiamo dire che Don Ciotti ha tutte le carte in regola per non essere messo nel mazzo di quella maggioranza di intellettuali che invece pare dedita a servire l’area politica di riferimento, oppure proprio il ducetto del momento, dando credito così a “storytelling” a dir poco omissivi.
La lettera di Luigi Ciotti al suo razzista tutt’altro che immaginario in fondo rappresenta un appello a quella concretezza di cui si ammantano proprio coloro che si scagliano contro i “buonisti”. Puntuale la citazione tratta da uno scritto di Igiaba Scego: “Il futuro è sempre incerto, amici miei. Preoccuparsi dei diritti degli altri non è buonismo, ma significa anche (oltre a essere segno di umanità) preoccuparsi dei propri. Perché non si sa a chi toccherà la prossima volta il fato avverso. Almeno affrontiamolo tutti quanti con dei diritti in tasca. Datemi retta, lo so per esperienza, è meglio” (pp.22).
Edizione esaminata e brevi note
Luigi Ciotti, (Pieve di Cadore, 1945) è un presbitero e attivista italiano. Ha fondato nel 1965 a Torino il Gruppo Abele, espressione di un impegno sociale fatto di accoglienza e servizi alle persone, ma insieme di proposta culturale, educativa e in senso lato politica. Oggi il Gruppo lavora accanto a giovani e adulti con problemi di dipendenza, donne costrette alla prostituzione, migranti, malati di Aids, famiglie in difficoltà. Nel 1995 don Luigi ha contribuito alla nascita di Libera, che oggi coordina l’impegno di oltre 1600 realtà in Italia, attive nel contrasto alla criminalità organizzata e nella promozione di una cultura della legalità e della responsabilità. Per Edizioni Gruppo Abele ha scritto: La speranza non è in vendita (2011), Lezioni di cittadinanza (2012), Io dico NO (2016), La classe dei banchi vuoti (2016) e L’eresia della verità (2017).
Luigi Ciotti, “Lettera a un razzista del terzo millennio”, EGA-Edizioni Gruppo Abele (Collana “Gli occhiali di Abele”), Torino 2019, pag. 80.
Luca Menichetti. Lankenauta, marzo 2019
Follow Us