Grugni Paolo

Pura razza bastarda

Pubblicato il: 4 Giugno 2019

“Questo è il mio diario e quella che leggerete è la verità come io l’ho vissuta e appesa. Ci vogliate credere o no, le cose sono andate così” (pp.9). Il commissario Sergio Malfatti si presenta senza troppi preamboli e quindi il diario di questo particolarissimo servitore dello Stato – documentato dal 28 marzo 1965 al 31 dicembre 1967 – potrà subito apparirci non semplicemente come la cronaca serrata di vicende poliziesche, ma molto di più. Un commissario che è frutto della fantasia di Paolo Grugni, e nel contempo personaggio impegnato, con rabbia e con un disperato accanimento, a testimoniare la storia vera, e spesso volutamente dimenticata, di un’Italia che da lì a poco avrebbe conosciuto la “contestazione” e  la stagione dei cosiddetti opposti estremismi.

Il resoconto di Malfatti prende le mosse dal ritrovamento, proprio nei cessi dello stadio di S. Siro, del cadavere di un certo Pasquale Avanzo, operaio nato a Catania, e “con l’equivalente di un mese di stipendio […] nelle tasche” (pp.13). Di primo acchito un omicidio come tanti altri, ma il nostro commissario è tutt’altro che ingenuo e, col contributo del suo assistente Vitale, un siciliano costretto ad abbandonare la sua isola per aver pestato i piedi a pezzi grossi intoccabili e in odore di mafia, capisce che dietro al morto ammazzato c’è qualcosa di molto grave, che le superiori autorità e politici sono invece ben intenzionati a minimizzare se non proprio ignorare. L’intuizione di Malfatti è quella giusta: complice la poco accorta politica di confino, le famiglie mafiose si sono incardinate nel sistema criminale milanese, soppiantando la storica ligéra. Giusto per uscire un attimo dalla trama romanzesca possiamo ricordare le parole di Nicola Gratteri, procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Reggio Calabria: “Confino dei mafiosi al nord, il più grosso errore”. Fatto sta che l’omicidio di Pasquale Avanzo suggerisce sia già in atto una guerra di mafia tra il clan dei Nano e dei Cannizzaro; mentre i picciotti – la “pura razza bastarda” del titolo -, con spargimento di sangue e intimidazioni, stanno monopolizzando il racket delle estorsioni, della droga, del gioco d’azzardo e di tutto quello che significa crimine.

L’impegno professionale del commissario però non si limita alla mafia propriamente detta, la cui presenza se veniva minimizzata e negata in Sicilia, figuriamoci se poteva essere contemplata dalle autorità politiche e di pubblica sicurezza presenti nel produttivo nord d’Italia: la contrapposizione tra blocchi ideologici e militari aveva fatto della penisola un paese di frontiera e fin dal 1965 si potevano cogliere i depistaggi, le pericolose omissioni e complicità che legavano le organizzazioni criminali mafiose con i servizi deviati e di fatto gestiti dalla CIA, i progetti di golpe, di stragi, il terrorismo nero e rosso, il Sifar, il Piano Solo, l’organizzazione stay-behind, una corruzione sempre più pervasiva. I tanti personaggi presenti nel romanzo – in gran parte elencati in sette pagine ad epilogo del volume – sono descritti nei loro tratti essenziali, ben inquadrati psicologicamente, grazie allo sguardo disincantato, aggressivo e spesso malinconico del narratore: funzionari di polizia ostili, delinquenti della vecchia guardia e picciotti sotto mentite spoglie, l’anziana e lamentosa madre, la prostituta Marina Borsano, l’unica donna davvero capace di irretire l’uomo Sergio M., la fidanzata Gloria, la cui reale identità testimonia quanto la vita del commissario sia ormai vincolata da misteriosi manovratori, il “Comandante”, un enigmatico pezzo grosso dei Servizi, senza volto, che istruisce Malfatti – non si sa ancora a che titolo e a che scopo – su trame politico-criminali presenti e future.

“Pura razza bastarda” ci presenta una Milano nerissima ed in gran parte sconosciuta, nonché il racconto della vita di un poliziotto il cui “essere contro” questa volta assume un contenuto politico: è la storia privata e professionale di un servitore dello Stato che ha combattuto la guerra civile nelle brigate Garibaldi, che non vuole essere considerato un ex partigiano e che si comporta di conseguenza, con tanto di basco rosso in testa. Un “comunista”, additato con palese disprezzo da superiori e colleghi conservatori e reazionari, che ha in mente un’idea di comunismo del tutto eterodossa. Sicuramente anticlericale, nemico giurato della destra fascista riciclatasi in sistema di destra conservatrice, della DC, partito di spregiudicati e di spergiuri atlantisti, ma nel contempo difficilmente assimilabile ai suoi compagni di fede stalinista. Altrimenti non avrebbe citato un famoso ex comunista: “Ha ragione Koestler quando dice che il passato è sempre quello che avrebbe dovuto essere, mai quello che è stato” (pp.38). Per di più Longo non gli appare certo un segretario impeccabile (“Peccato gli sia uscita anche la peggior cosa che poteva dire, ovvero che il PCI si ispira alle democrazie dei paesi dell’Est”) e, una volta messo a confronto con gli antagonisti pre-sesanttottini, lo stesso partito non ne esce bene: “il PCI assomiglia sempre più ad una chiesa dove è impossibile dissentire dai dogmi” (pp.563).

Parole che ancora una volta dipingono il commissario Malfatti come uomo apparentemente contraddittorio, condannato ad un futuro di solitudine, di certo sbrigativo, abituato alle maniere forti, che non conosce sfumature, difensore della legalità contro ogni compromesso; e nello stesso tempo libertario, profondamente infastidito dal bigottismo e da molte delle tradizioni del popolino italico. Tra le righe di un diario che vuol dire anche cronaca sportiva – Malfatti è infatti un fanatico milanista -, ascolti musicali che proprio non contemplano la tradizione italiana, vicende giudiziarie di Danilo Dolci e di coloro che intendevano contrastare la cultura mafiosa, emergono in tutta chiarezza i contrasti umani e professionali di un poliziotto con intuizioni a dir poco profetiche – e qui si sente tutto il debito delle numerose letture socio-politiche di Paolo Grugni – pochi anni prima la compiuta realizzazione delle strategie criminali degli anni ’70.

In tutto quasi seicento pagine –  ne bastavano forse quattrocento – che rappresentano quindi una convincente commistione di trame poliziesche (meglio usare il plurale) e di storia italiana, quella più misteriosa ed ancora controversa (molto ampia e, per un poliziesco, inconsueta la bibliografia in calce al volume); peraltro suffragata da uno stile colloquiale, immediato, sicuramente efficace. Il romanzo potrà suscitare magari qualche perplessità proprio per la sua forma diaristica, ma difficilmente l’interesse del lettore per il già annunciato seguito verrà meno: la narrazione si interrompe alla data 31 dicembre 1967, e molti misteri e importanti questioni rimangono in sospeso. Ne sapremo di più con “La speranza è la prima a morire 68-69-70”.

Edizione esaminata e brevi note

Paolo Grugni, è nato a Milano nel 1962. È autore dei romanzi “Let it be” (2004), “Mondoserpente” (2006), “Aiutami” (2008), “Italian Sharia” (2010), “L’odore acido di quei giorni” (2017), “La geografia delle piogge” (2012), “L’Antiesorcista” (2015), “Darkland” (2015). È autore inoltre della silloge “Frammenti di un odioso discorso” (2017). Vive e lavora a Berlino.

Paolo Grugni, “Pura razza bastarda”, Laurana Editore (collana “Rimmel narrativa italiana”), Milano 2018, pp. 603.

Libri di Paolo Grugni in Lankenauta

Luca Menichetti. Lankenauta, giugno 2019