Santoni HG Vanni

Terra Ignota. Le Figlie del Rito

Pubblicato il: 25 Dicembre 2014

Chi avesse già letto il primo “Terra Ignota. Risveglio”, e soprattutto chi ne avesse già scritto, avrà due buoni ragioni per non lasciarsi sfuggire il secondo volume “Le figlie del rito”. Innanzitutto – la cosa è a dir poco ovvia – iniziare a leggere una saga, sia essa fantasy o meno, e non portarla a termine, non è il massimo. Un po’ come seguire la prima stagione di un serial che non ci è dispiaciuto affatto, e finirla lì. E poi – in particolare la cosa interessa coloro che avessero azzardato la recensione di “Terra ignota” – bisogna ammettere che, con “Le figlie del rito”, Vanni Santoni ha proposto un romanzo innovativo, vuoi per stile, vuoi per contenuti, anche rispetto al primo volume della serie: elementi che vengono incontro a chi ne volesse scrivere senza dover ripetere pari pari le osservazioni fatte per “Risveglio”. Molte cose sono cambiate tre anni dopo l’ultimo cruento scontro tra Ailis e Aydric Reinhare e la fuga della ragazzina: “stringendosi il fianco trapassato di imbucò per un vicolo approfittando della nube di polvere, e non fu più vista per molto tempo a Diomira, o altrove nelle Terre Occidentali”. L’Ordine del Cerchio d’Acciaio ha dalla sua parte Morigan, Figlia del Fuoco, ed è guidato dal laido e deforme HH: ha conquistato le Cinquantaquattro Città, ma la sua supremazia è insidiata dalla cosiddetta Alleanza Ribelle, sotto l’egida della Strega dell’Ovest, ovvero Lorlei, Figlia dell’Acqua. I ribelli dell’Impero hanno reclutato il Nibbio, un mercenario di cui si dicono meraviglie e che ha molto a che fare con Brigid, Figlia dell’Aria. Questa a sua volta si reca nel bosco impenetrabile di Broceliande per proporre ad una rediviva Ailis, Signora dei Lupi, di unirsi a sua volta alla resistenza. Quattro giovani donne, sorelle-amiche-nemiche, alle quali fanno riferimento i quattro elementi, terra, acqua, aria, fuoco, che si incontrano e si scontrano in virtù del Rito e di tutto quello che ne è conseguito, solo in parte rivelato nel precedente “Risveglio”. Tranne Morigan le ragazzine sono cresciute ai margini delle Terre Occidentali e, di pagina in pagina, si scoprirà come le “Figlie”, seppur concepite dall’Imperatrice e dai Quattro Re sotto l’influsso della Coppa e della Spada, come in una sorta di fecondazione eterologa magica e antelitteram, siano state date alla luce dalle schiave di palazzo; e come poco dopo la loro nascita siano state rapite da quattro traditori per evitare loro la corruzione e la crudeltà del nascente Cerchio d’Acciaio. In questo modo vengono meglio chiarite parte delle vicende che nel primo volume invece erano state soltanto evocate; fermo restando che anche “Le Figlie del Rito” così svela la natura di bildunsgroman, ovvero romanzo di formazione: se però in “Risveglio” lo potevamo intendere come il classico percorso dalla prima giovinezza all’età adulta, salvo l’anticipazione dello Jormungand, legato all’acqua, il cui significato ora diventa più chiaro, il nuovo romanzo, facendo la conoscenza del Drago (legato al fuoco), dello Shahrukh (aria) e del Cromruac (terra), delinea ben altra formazione; ovvero la presa di coscienza di una natura divina e della capacità di riunire in sé i poteri degli altri elementi.

Scontri nei quali si inserisce suo malgrado la sfortunata sorella di latte di Ailis, Vevisa, rapita e condotta nella Capitale per errore, che avevamo lasciato prigioniera e in balia delle voglie dell’orrido HH. La ragazzina però è ben intenzionata a sopravvivere e a riscattarsi, grazie alla sua astuzia, alla conoscenza del passato e all’apprendimento delle pratiche magiche, tanto che la sua figura diventa sempre più centrale; non fosse altro che, ai quattro elementi noti, inaspettatamente se ne aggiungerà un altro, ignorato dagli stessi artefici del Rito. Il colpo di scena finale rappresenta il sacrificio di una delle protagoniste, forse anche il suo riscatto morale, che così svelerà il nome della nuova Imperatrice, destinata a creare un mondo nuovo. Con “Le Figlie del Rito” Ailis perde il suo ruolo di protagonista assoluta per condividere con le altre amiche-nemiche-sorelle la scoperta di cosa voglia dire passare da una condizione umana, seppur caratterizzata da doti strabilianti, a quella esplicitamente divina.  Possiamo cosi comprendere come, a differenza di “Risveglio”, dove apparivano preponderanti gli elementi fiabeschi e “manga”, il nuovo romanzo sia caratterizzato da una sorta di mitologia fantasy, qualcosa di diverso rispetto il classico high fantasy, e dove le scene di violenza, l’evocazione di pratiche crudeli come il cannibalismo, e dove soprattutto la presenza dell’elemento magico e rituale diventano elementi indispensabili per comprendere l’evoluzione e il destino delle “Figlie del Rito” e della loro inaspettata antagonista.

Riguardo il primo volume avevamo sottolineato le diverse fonti d’ispirazione, da quelle “di genere” a quelle più propriamente letterarie (lo stesso HG aggiunto al proprio nome, quale omaggio a Morselli, diceva e dice qualcosa). Con “Le Figlie del Rito”, a fronte di un bildunsgroman di livello più profondo, ci è sembrato che Santoni abbia fatto pendere la bilancia su un versante più colto: ad esempio le tante ritualità magiche, strumenti letali in mano alle terribili ragazzine, vengono descritte sulla scorta grafica delle rune, che storicamente rappresentavano gli strumenti divinatori dei Celti, e sulla scorta di espressioni d’origine sanscrita come  “shakti”, intesa come energia cosmica; oppure il riferimento alla Thule o all’unione “della Rosa e della Croce” (pag. 276). Potremmo parlare quindi di una versione di fantasy più colta e con richiami alla nostra cultura mediterranea, tale da rappresentare un discontinuità rispetto i tanti cloni tolkeniani pubblicati a partire dagli anni settanta. Proprio per questo motivo, per la presenza di tanta carne al fuoco e di tante fonti d’ispirazione, oltre all’opportuna assenza di mappe e alla presenza invece di un glossario dei personaggi, ci è parsa felice la scelta di proporre capitoli brevi, per lo più alternando la prospettiva di Ailis e quella di Vevisa, tale da rendere la lettura più scorrevole, e probabilmente più coerente con un’idea di romanzo più alta, da poema cavalleresco. Anche dal versante del linguaggio si colgono gli intenti del toscano Santoni: lo “sciacquare i panni in Arno” non sarà forse più attuale ma qualche espressione e parola presente nel romanzo, d’uso più frequente in terra toscana, non contraddice affatto l’impostazione più classica del romanzo; semmai la rende più evidente.

A questo punto non ci resta che attendere il terzo volume di Terra Ignota: ci aspetterà un prequel, ma probabilmente la conferma di una scrittura che, in quanto a contenuti e stile, ha mostrato come un fantasy moderno non debba necessariamente scopiazzare a man bassa da illustri precedenti anglosassoni.

Edizione esaminata e brevi note

Vanni Santoni, è nato a Montevarchi nel 1978. È scrittore e giornalista. Laureato in scienze politiche, comincia a scrivere nel 2004, sulle pagine della rivista Mostro; nel 2005 vince il concorso Fuoriclasse della casa editrice Vallecchi con il testo Vasilij e la morte. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi Personaggi precari (2006), Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011) e, da coordinatore, In territorio nemico (minimum fax 2013). Per Mondadori ha pubblicato nel 2013 il primo volume di Terra ignota.

Vanni Santoni, “Terra ignota. Le figlie del rito”, Mondadori (collana Chrysalide), Milano 2014, pag. 381

Luca Menichetti. Lankelot, dicembre 2014