Mugno Salvatore

I carnefici di Sicilia

Pubblicato il: 9 Febbraio 2022

“I carnefici di Sicilia” rappresentano un originale completamento del dittico sui “Decollati. Storie di ghigliottinati in Sicilia”, pubblicato nel 2019 da Salvatore Mugno; ovviamente questa volta visto dalla parte di coloro che, volenti o nolenti, avevano la responsabilità di operare come boia. Abbiamo detto subito “volenti o nolenti” perché, grazie alle pagine particolarmente ricche fonti documentali, risulta che l’identità e la conseguente vita dei “maestri di giustizia” non fosse improntata a un bel vivere – “non avevano proprio nulla in comune, ad esempio, con la agiate e riverite esistenze dei “tagliateste” d’oltralpe”, pp.77 – e nemmeno ad un condivisile senso di giustizia. I boia, che operavano nel regno borbonico e poi nel nascente regno d’Italia, potevano apparire piuttosto “una accolita di straccioni”, con paghe da fame, tanto da creare ai magistrati innumerevoli problemi per il loro reclutamento. Reclutamento di carnefici, per lo più a tempo determinato, spesso di fatto costretti a sobbarcarsi un mestiere così ingrato, con prassi che prevedevano di sondare tra i detenuti chi fosse idoneo a svolgere l’attività di “maestri”. Che la loro situazione fosse realmente precaria la comprendiamo perfettamente leggendo uno degli innumerevoli carteggi d’epoca in calce al testo di Salvatore Mugno: “mi ha riferito che questi esecutori di giustizia, oltre lo giornaliero stipendio, non godono né razione di pane né cibo in caldo né fornitura d’olio per accendere la lampada ed in tal circostanza mi ha fatto osservare che gl’individui di cui trattasi dovendosi riguardare come detenuti perché privi di libertà” (pp.84).

Ai problemi di sostentamento se ne potevano aggiungere altri inerenti il vestiario, e quindi la dignità personale, ma in una versione piuttosto raccapricciante: “Tra gli ‘inconvenienti ai quali senza di esso andrebbero ordinariamente ad imbattersi’ a cui allude il Prefetto forse vi erano anche gli schizzi di sangue conseguenti alla macelleria a cui i boia erano destinati e, perciò, i danni al proprio, sebbene presumibilmente misero, vestiario. Né tanto meno poteva consentirsi che i carnefici si presentassero al patibolo con un vestiario sporco di precedenti esecuzioni” (pp.92). Questo breve brano ci ricorda come anche in Sicilia i boia si fossero messi al passo con i tempi e, quindi, all’impiccagione si fosse aggiunta la più moderna – ma anche più sanguinolenta – ghigliottina. Ghigliottine che, da quanto si può cogliere leggendo la documentazione del tempo, in tutta evidenza non erano affatto come quelle inesorabili, efficienti, che in Francia falciavano a raffica; semmai talmente arrangiata alla meno peggio da costringere il carnefice, in più occasioni, a lavorare col coltello per recidere definitivamente la testa: “per cui nel cader la mannaja, cominciò a recidere la testa sudetta dall’osso sincipritale, e trovando più resistenza tagliò il collo del cennato paziente sino alla pellicola per cui la testa non saltò e restò appesa, ma il carnefice recidendo subito la pelle del collo, prese la testa in mano […]”(pp.127).

Compiti ancor più ingrati se solo pensiamo quanto quei disgraziati carnefici, soprattutto i galeotti reclutati, fossero invisi ai loro compagni di galera. Tipo Antonio Musso, che esordì nelle vesti di boia a Palermo nel 1846, ma che soprattutto si ritrovò costretto a vivere isolato dai suoi compagni di cella, complice il suo vizio di fare il delatore. Vizio, in tutta evidenza, determinato dall’impellente necessità di un sostentamento economico. E già questa vicenda ci mostra ancora una volta come l’esistenza dei carnefici siciliani, per quanto sia affaccendati nei poco apprezzati “esperimenti” [ndr: soppressioni], in mezzo a tristi situazioni familiari, paghe misere, intenti a mendicare un pasto caldo oppure un rifugio ove evitare ritorsioni, non avesse niente a che fare con quella di Henry-Clément Sanson, il “Monsieur de Paris” al servizio del governo francese.

In sostanza “I carnefici di Sicilia”, soprattutto grazie alla scrittura di Mugno e alle sue ricerche meticolose, porta alla luce un mondo, soprattutto quello borbonico, dominato da una burocrazia non soltanto oscura – del resto si parla di soppressioni – ma proprio sconclusionata ed inarrestabile anche di fronte alla morte.

Edizione esaminata e brevi note

Salvatore Mugno, (Trapani,1962) dopo essersi occupato, attraverso varie monografie critiche, di letteratura trapanese e siciliana dell’Ottocento e del Novecento, si è rivolto allo studio di alcune importanti figure della storia letteraria tunisina, curandone e traducendone delle opere: Mario Scalesi, Moncef Ghachem e Abū’l Qāsim ash-Shābbi. Tra i suoi lavori vi sono i romanzi: Opere terminali (2001), Il pollice in bocca (2005) e Il biografo di Nick La Rocca (2005; 2017). Ha dedicato degli studi alla figura del sociologo e giornalista torinese Mauro Rostagno: Parole contro la mafia (1992), Mauro è vivo (1998), Mauro Rostagno story. Un’esistenza policroma (1998). È autore, inoltre, di vari saggi, tra i quali: Il pornografo del regime. Erotismo e satira di Mameli Barbara (2007); Lettere a Svetonio. Il capo di Cosa Nostra si racconta (2008); Peppe Nappa. Maschera e caratteri storici dei siciliani (2010); Matteo Messina Denaro. Un padrino del nostro tempo (2011) e ha curato un’edizione dei romanzi di Giuseppe Lo Presti (Il cacciatore, 2015). Ha destinato ricerche a due importanti giudici: Una toga amara. Giangiacomo Ciaccio Montalto, la tenacia e la solitudine di un magistrato scomodo (2013) e Quando Falcone incontrò la mafia. I primi processi del magistrato a Cosa Nostra nel Palazzo di Giustizia di Trapani ed altre singolari vicende 1967-1978 (2014). Risalgono al 2021 “Ballata di Peppe Nappa. La Sicilia pazza, allegra e incantata. Nove brevi atti unici sulla maschera siciliana ai nostri giorni”, nonché la cura e la traduzione di “Le poesie di un maledetto” di Mario Scalesi.

Salvatore Mugno, “I carnefici di Sicilia. Chi erano e come vivevano i boia nell’Ottocento”, Navarra (collana “Officine”), Trapani 2021, pp. 155.

Luca Menichetti. Lankenauta, febbraio 2022