Un rebus di nome passato alimenta l’incubo del presente
Un capolavoro di una modernità stupefacente, in gran parte tutt’oggi misconosciuto. All’epoca (la seconda metà degli anni quaranta) incompreso e solo qualche decennio più tardi parzialmente rivalutato.
La nostra storia inizia con un avvio più curioso che inquietante. George Matthews, giovane e affermato psichiatra, riceve nel suo studio un paziente, Jacob Blunt, che gli parla di una triade di bizzarri “omini” che lo pagano per fare strane cose, l’ultima delle quali è la consegna di un cavallo purosangue (il titolo originale dell’opera è The deadly percheron) a casa di una nota attrice. A breve scoprirà di trovarsi in mano il biglietto di prima classe timbrato e vidimato per un viaggio allucinante fuori e dentro la propria psiche, fatto di binari morti e deragliamenti. Dall’internamento in un ospedale psichiatrico (una sorta di ingiusto contrappasso?!) alla prospettiva di finire in galera per omicidi che (forse) non ha commesso, fino al rischio di lasciarci la pelle, il percorso è estremamente rapido, quasi costui fosse diventato la pallina di un flipper prossimo al tilt. Eppure la cosa forse più angosciante è che a un certo punto nessuno crederà alle sue affermazioni, e lui stesso arriverà a dubitare della propria sincerità e persino della stessa propria identità, del fatto stesso di averne ancora una.
In questo romanzo si ritrovano sia i classici elementi del giallo deduttivo che quelli di un thriller psicologico ante litteram. Questa seconda natura, lungi dallo sconfessare la prima, ne sviluppa tutte le potenzialità. Allo stesso tempo fa sì che, pagina dopo pagina, il lettore si senta sempre più coinvolto, ammaliato dall’ambiguo fascino della paranoia (reale o presunta che sia) e che a un certo punto, desideri ardentemente conoscere – ancor più forse che il nome dell’assassino – il passato del protagonista e soprattutto il suo futuro, ossia se riuscirà o meno a uscire da questo labirinto indistricabile, dove menzogna e verità, psicosi e cosiddetta normalità, sono termini antitetici ma ugualmente indistinguibili, fuorvianti, in grado di fargli smarrire l’unica possibile via di fuga dall’incubo e di ritorno alla vita.
L’utilizzo dell’io narrante, che stila in tempo reale il “resoconto completo di un uomo in cerca del suo passato” (per citare una significativa osservazione esternata nel corso della narrazione) accresce ulteriormente la suspense, sia perché sottolinea con più efficacia la situazione straniante vissuta dal nostro psichiatra, sia perché fa sì che narratore e lettore progrediscano insieme nella risoluzione del caso.
Oltre al protagonista, allo stesso tempo detective e vittima (della propria mente o di una macchinazione), in cerca di un assassino e ansioso di rimpadronirsi di un passato che sembra irrimediabilmente sfuggito via, l’autore ci offre una galleria di personaggi altrettanto seducenti. Lo stesso può dirsi delle atmosfere e ambientazioni, fra le quali un ruolo fondamentale è rivestito dal luna park: uno dei topos più suggestivi della letteratura del brivido.
Come in ogni storia del mistero che si rispetti, l’epilogo sbalordisce, rivelando tutte le sfaccettature di un intreccio che si dipana al pari di un perfetto meccanismo ad orologeria.
Edizione esaminata e brevi note
John Franklin Bardin (Cincinnati, 30 novembre 1916 – New York, 9 luglio 1981) ebbe un’infanzia e un’adolescenza tormentate e dolorose. Per le ristrettezze economiche dovette abbandonare presto l’università per trovarsi un lavoro. Da questo momento cominciò anche quel processo di formazione autodidattica, comune a molti scrittori americani, caratterizzato da intense ed eterogenee letture (per un certo periodo fece anche il commesso in una libreria). Alla soglia dei trent’anni si trasferì a New York dove lavorò come dirigente in un’agenzia di pubblicità. A partire dal 1946 scrisse L’enigma dei tre omini, The Last of Philip Banter e Devil Take the Blue-Tail Fly. A questi seguì una serie di crime stories più tradizionali firmate con il nome di Gregory Tree. Bardin era forse troppo avanti per i suoi tempi: non sembrava appartenere all’universo di Agatha Christie e Dickson Carr ma piuttosto a quello di Patricia Highsmith (ancora di là da venire) o alla tradizione di Poe.
- John Franklin Bardin, L’enigma dei tre omini, titolo originale: The Deadly Percheron, traduzione di T. Lord, 1946, Polillo Editore (collana: I Bassotti), II° Edizione, pp. 233.
Precedente pubblicazione venerdì 5 aprile 2024 sul blog di Leonardo Nuti: https//: www.leonardonuti.it
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