Siamo sulla ribalta. L’artista è solo, le luci sono su di lui. Tutto ciò che cerca è un applauso. Siamo nel sogno, ma eravamo nella realtà, un tempo. Nella realtà di Calvero, grande del palcoscenico londinese ora in disgrazia, senza più un ruolo e, forse, senza più ispirazione. Dicevamo della ribalta, e del sogno: eccoli che arrivano gli applausi, alla fine; ecco che ridono, gli occhi dell’artista. Niente vale un applauso sincero, non esiste altra ragione di vita per un artista del palcoscenico. Ma la realtà improvvisamente si rabbuia, svaniscono i suoni delle risa. E con loro, gli applausi scroscianti. Calvero ora guarda la platea, nel silenzio assordante. Gli spettatori non ci sono più: è un uomo solo.
Col suo nono lungometraggio, peraltro l’ultimo americano – di lì in poi girerà in Inghilterra, in polemica con il Maccartismo -, Charlie Chaplin, il più geniale folletto della storia del cinema, porta nelle sale una intelligente quanto malinconica e a tratti struggente riflessione sul ruolo dell’artista e sui poteri taumaturgici dell’arte. Poteri salvifici che, nell’avvenuta e completa trasfigurazione, nel momento in cui – in una lotta interiore dall’esito sovente scontato – l’artista “uccide” per sempre la finitezza e la mediocrità (l’artista è grande, è un semidio, comunque immortale) dell’uomo che ha in sé, possono trasformarsi nell’arma impropria d’un suicidio nemmeno apparente, in una rinuncia alla vita. È sottile il confine sul quale trovare l’equilibrio, e Chaplin-Calvero lo ha oramai oltrepassato da tempo quando si trova a salvare da morte certa una giovane ballerina che ha scelto di togliersi la vita. Sola, malata e senza soldi, Terry è accolta e curata dall’artista in crisi, una volta noto e acclamato clown, adesso consumato dall’alcol e dai ricordi. E Terry, malata nella testa più che nel fisico – un trauma infantile di ritorno le paralizza gli arti inferiori -, si rivela essere un motivo ottimo per continuare a vivere, inseguendo nuovi sogni di gloria artistica. Se inizialmente è Terry che non ne vuol sapere di vivere, vista l’impossibilità di usare e le gambe e sublimare la sua arte, sarà proprio l’anziano clown a darle la spinta vitale necessaria. Successivamente le parti si invertiranno, perché la ragazza tornerà a splendere sul palcoscenico e Calvero si ritroverà, sconfitto dall’indifferenza del pubblico nei suoi confronti, ad attaccarsi alla bottiglia. E qui sarà il tenero amore di Terry a dargli l’ultima possibilità di stupire chi lo credeva finito. E cosi sarà, nuovamente sulla ribalta (in compagnia del grande Buster Keaton): tornano gli applausi, quelli veri, l’unica linfa possibile per un artista del palcoscenico, l’unica grande ragione di vita. Quella per cui si può anche morire, convinti di vivere per sempre.
Intenso, malinconico e struggente, lirico e commovente. Potrei, per un’opera di tale grandezza – come la stragrande maggioranza dei film di Chaplin, peraltro -, fare incetta di aggettivi ma sarebbe mestiere ingrato e poco utile, il mio. Meglio significare e tributare il giusto omaggio al comico americano estendendo i pensieri oltre i semplici aggettivi. E un’opera del genere è densa di motivi su cui spendere pur brevi riflessioni. Potremmo cominciare da qui, dalle parole che Calvero regala a Terry dopo che ella ne ha pronunciate alcune dal sapore definitivo: “La vita non ha senso”. Cui l’artista risponde: “Perché voler trovare un senso. La vita non ha senso: è un desiderio”. Eloquente ed anche estremamente saggio. Perché cercare un senso? Struggersi nell’immaginare che esista una via bianca ed una nera, che esista una direttrice per la felicità o una missione da assolvere. La vita è desiderio. E con ciò – e tutto il film è un grande supporto all’affermazione di Chaplin-Calvero – ci si vuol significare che noi e soltanto noi, per le possibilità che ci vengono offerte nei contesti in cui viviamo, siamo artefici del nostro destino. Più siamo inclini al sogno, più desideriamo e più siamo vivi. Semplice, fin troppo semplice, qualcuno immagina e scrive, tanto che Luci della ribalta, per queste ed altre affermazioni nette e immediate, ha un po’ diviso la critica cinematografica. Pur riconoscendo la maestosità della cornice di un progetto dalle grandi ambizioni artistiche (forse il più ambizioso film realizzato da Charlie Chaplin), la critica rimproverò a Chaplin di essersi discostato dal suo genere, di virare verso il moralismo – se non addirittura il qualunquismo -, reo come era di aver costruito un personaggio che si fa forte di una sorta di filosofia senile. Quando Calvero, in prossimità dell’epilogo, si dà all’arte di strada, nel motivare la sua scelta pronuncia queste parole: “Tutto il mondo è un palcoscenico, e questo è il più legittimo”. Anche qui non si tratta di facili moralismi, a mio personale avviso, se si ha la giusta dose d’attenzione, d’amore e d’adesione nei confronti del personaggio che Chaplin fa muovere sulla sua sontuosa ribalta, perché c’è ragione da vendere in queste parole (allorché l’arte non ha prigione né confini, nemmeno che sia il più maestoso dei teatri ad ospitarla), peraltro coerenti con lo spirito dell’opera. Opera che dura la bellezza di due ore e mezza, che non ha cedimenti strutturali e narrativi, dolcemente avvolta da una delle più famose ed ispirate colonne sonore della storia del cinema (vinse un Oscar postumo, allorché la pellicola venne proiettata negli States ben vent’anni dopo la sua realizzazione), un concentrato di note magiche e malinconiche scritte dallo stesso Chaplin. Luci della ribalta è un vero e proprio melodramma che, attraverso la riflessione sull’artista e sull’arte, estende il suo piano d’indagine alla vita nel suo culmine, quando subentra la vecchiaia e non è più tempo di indossare maschere. Dunque Chaplin, abbandonata interamente la maschera che lo rese celebre (Charlot), peraltro già modificata, rispetto agli esordi, in opere come Tempi moderni e Monsieur Verdoux, si mostra al suo pubblico senza trucco, col suo vero volto per quasi tutta la pellicola.
I temi della solitudine dell’artista e della ribalta come unico territorio per l’affermazione di sé sono l’asse portante del film, fortificati e resi emblema di ciò che si voleva restituire attraverso la celluloide da tre sequenze memorabili. La prima, quella del sogno-incubo con cui ho aperto il pezzo, ci introduce nelle angosce esistenziali del protagonista, cristallizzate dalla rievocazione d’una gioia dolorosa, perché perduta nell’alcol e nel rimpianto. La seconda, davvero malinconica, vede calare le luci sul volto pietrificato di Calvero, sulla ribalta vuota, alla fine delle prove d’uno spettacolo nel quale Terry incontra l’amore un tempo sognato, cosi confermando una profezia che il comico aveva fatto alla giovane ballerina. Nella terza vi è il memorabile numero dei due musicisti, quello che conclude e sigilla l’opera, che regala a Calvero il palcoscenico del grande addio, concedendogli il privilegio d’andarsene con la consapevolezza di sentirsi amato (da Terry e dal suo pubblico). E in questo preludio ad un epilogo dal sapore agrodolce, sulla ribalta salgono i due più grandi artisti del cinema muto: al folletto Charlot “reincarnato” fa da spalla – non una semplice spalla, a ben guardare – nientemeno che Buster Keaton, il quale è capace di rubare la scena, se pur per pochi istanti, al protagonista sotto le luci. Si dice che la bravura di Keaton, omaggiato peraltro da Chaplin nel suo proporlo, comunque in assenza di parole, al palcoscenico sonoro, creò qualche fastidio al grande protagonista, tanto da immaginare che molti stacchi sullo stesso Keaton siano stati tagliati successivamente. Polemica o non polemica, queste sequenze memorabili sono di una comicità strabiliante, quella propria a coloro che trovano nell’uso del corpo quell’efficacia, quel genio creativo che non ha affatto bisogno di parole. Vedere per credere.
Quando sulla ribalta si spengono le luci, sull’ultima danza della giovane ballerina restituita alla vita e all’arte da un atto d’amore puro e generoso, ci tornano alla mente ancora una volta le parole di Chaplin-Calvero: “Il cervello, è questo il più grande giocattolo della felicità”. L’immaginazione, la fantasia generatrice: eccoli i doni della mente, quelli che, tornando alle prime parole di Calvero rivolte alla giovane affetta da un ignoto mal di vivere, accendono il desiderio e restituiscono il senso alla vita alimentando il fuoco sotto la cenere, restituendo all’artista la sua natura originaria. Perché, in fondo, pur nelle angosce e le difficoltà del quotidiano, quando ogni speranza sembra solo una remota possibilità, un irraggiungibile approdo e niente sembra poter tornare alla sua luce originaria: “nulla finisce, cambia soltanto”. Non resta che esserne consapevoli e non smettere di credere che la vita, questo percorso sovente irto d’ostacoli e di cocenti delusioni, possa sorprenderci ancora. Per una nuova, lucente, ennesima ribalta.
Federico Magi, dicembre 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Charlie Chaplin. Soggetto e sceneggiatura: Charlie Chaplin. Direttore della fotografia: Karl Struss. Montaggio: Joe Inge. Scenografia: Eugène Lourié. Costumi: Riley Thorne. Interpreti principali: Charlie Chaplin, Claire Bloom, Nigel Bruce, Buster Keaton, Sidney Chaplin, Barry Bernard, Josephine Chaplin, Wheeler Dryden, Melissa Hayden, Charles Chaplin Jr., Leonard Mudie, Mollie Clessing, Andre Eglevsky. Musica originale: Charlie Chaplin. Produzione: Celebrated Productions. Titolo originale: “Limelight”. Origine: Usa, 1952. Durata: 145 minuti.
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