È il 1972 ma, in quella cascina che si trova tra l’Adige e il Po, pare almeno un secolo prima. Nasce Caterina in quell’anno, proprio nella notte dei buoni auspici: il 10 agosto, San Lorenzo. Per ironia, però, Caterina di buone stelle pare non averne. È nata femmina e di per sé è già una disgrazia. Se si nasce femmine in un mondo rimasto impigliato nel passato dove conta solo la terra e la fatica che serve a lavorarla è normale essere considerate una sventura. Servono maschi, braccia da convertire appena possibile al lavoro. Nella famiglia di Caterina di maschi ce ne sono diversi: c’è un padre, dei fratelli, uno zio, dei cugini. Ma lei è nata femmina e neppure la Rogazione di don Virginio, evidentemente, è servita a qualcosa. “Da ogni male salvaci, Signore; Dal flagello del terremoto, dalle tempeste e dalla nascita di troppe femmine per famiglia salvaci, Signore; Dalla discordia, dalla violenza e da ogni ingiustizia salvaci, Signore…“.
I genitori di Caterina sono chiusi nel perimetro della loro cascina e nei limiti della loro esistenza. Saverio perennemente mortificato dalla frustrazione di non poter lavorare la terra come suo fratello per colpa di una malformazione cardiaca mai operata, Ornella più giovane di lui di quindici anni, sposata e portata in casa perché in quel momento c’erano le barbabietole da cavare. Nella stessa cascina vivono anche gli zii di Caterina: Arnaldo, l’unico vero uomo di casa; Italia sua moglie, perennemente attaccata alla bottiglia e i loro figli. La vita di queste famiglie in simbiosi si muove col muoversi delle stagioni e con le bizze del cielo, in bilico tra la speranza di ricavare un buon raccolto e la disperazione di veder andare tutto in fumo per colpa di una grandinata improvvisa o di un’estate troppo arida.
Caterina si fa cattiva abbastanza in fretta. Di lei importa poco un po’ a tutti ma, come tutti i bambini, vorrebbe solo ricevere qualche attenzione e un po’ d’affetto. Lo elemosina come può: facendo dispetti e cattiverie. Non conosce un altro linguaggio, nessuno glielo ha insegnato. Nella sua casa le femmine subiscono e basta. Nascono, lavorano, vengono usate per fare sesso, magari fanno figli e passano oltre. Tutto accade in silenzio, secondo una meccanica che, vista da fuori o da poco più lontano, appare primitiva ed aberrante. Seguendo questa logica, infatti, è persino naturale che un padre molesti sua figlia. “Quando toccò a Caterina, per la prima volta a quattro anni e mezzo, aprire le gambe di notte e tirarsi giù le mutandine bianche con l’elastico cambiato già per la seconda volta, non parve strano vedere suo padre Saverio improvvisamente rivitalizzarsi sentendolo metterle tra le gambe un rametto defogliato, non le sembrò strano sentire il peso di quel corpo morto chiederle, quasi pregandola, di tegnere ben verte e gambe, di tegnere verto ben che se te tien verto ben non te fao mae“.
A Caterina piace stare dietro all’imballatrice durante la mietitura, rimane a bocca aperta quando viene usato il cannone per chiamare la pioggia, conosce tutti i misteri della terra e delle stagioni ed adora le tempeste. A scuola ci va perché è un obbligo ma appena avrà l’età giusta finirà in fabbrica come le sue cugine. I suoi occhi azzurri sempre tristi e i suoi troppi silenzi riescono ad attirare l’attenzione di un’insegnante che intuisce il disagio di quella bambina esageratamente chiusa e musona. La donna, però, nulla può contro la scelta ottusa dei burocrati che la destinano altrove per “incompatibilità ambientale”. Ai bambini di campagna come Caterina basta saper leggere, scrivere e far di conto. Nulla di più. Eppure dentro i silenzi di Caterina c’è tutto quello che non può dire. C’è il Cacciatore dai mille volti che l’aspetta ogni volta dentro una buca e la costringe a fare cose che non può confessare ad anima viva. “Caterina, al pensiero di essere considerata più sporca di quello che già era essendo una femmina, si impegnò a non disobbedire mai a chi le chiedeva di fare quelle cose lì; se la gente fosse venuta a sapere che era lei ad «attirare», l’avrebbero chiusa in cantina al buio per dei mesi, forse anni“. Per la sua famiglia continua ad essere solo una sorta di creatura fuori dal mondo, una pazza.
Dentro la storia di Caterina c’è un’infanzia dolente e negata. C’è l’incomprensione e la rabbia, sua degna figliola. Perché Caterina non può che essere furiosa col mondo e con quella famiglia che l’ha rinnegata fin dalla nascita. Cresce e vive con ferite insanabili. “L’ordine innaturale degli elementi” affonda le proprie radici nell’infanzia della stessa autrice che ha impiegato molti anni prima di riuscire a raccontarla. Le sue parole scorrono facilmente. La sua scrittura è al tempo stesso poetica e materiale, carnale ed impalpabile. Magnifiche e potenti le descrizioni della natura e dei suoi fenomeni, ben impostati la composizione e l’andamento. Di tanto in tanto si innestano porzioni in dialetto veneto che danno veridicità ed autenticità al racconto ma che, per me che non sono nata nel nord-est, hanno rappresentato un piccolo problema. “L’ordine innaturale degli elementi” è un libro affascinante che lascia dentro un’amarezza sorda ed inquieta. Soprattutto se si è state bambine.
Edizione esaminata e brevi note
Barbara Buoso, “L’ordine innaturale degli elementi“, Baldini&Castoldi, Milano, 2014.
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