Curiosa e non nota come avrebbe meritato, oltre la ristretta cerchia dei cinefili e degli addetti ai lavori, la parabola artistica di Marco Ferreri, soprannominato lo “spagnolo del cinema italiano” per aver realizzato i suoi primi tre lungometraggi (El Pisito, Los Chicos e El cochecito, rispettivamente del 1958, 1959 e 1960) in terra (e con lingua) iberica, per poi approdare, nei Sessanta e Settanta, a una commedia – girata per lo più in Italia ma non proprio all’italiana – che si è contraddistinta per le atmosfere grottesche, lo humour nero e le forti dosi di pessimismo, fondendo sempre comico e tragico fino a virare nel dramma surreale e simbolico. Alfiere e protagonista del cinema ferreriano fu, in particolare, Ugo Tognazzi, che prestò il suo volto in pellicole come L’ape regina, La donna scimmia, Controsesso, L’uomo dei cinque palloni (episodio di Oggi, domani, dopodomani) Marcia Nuziale, L’udienza, La grande abbuffata e Non toccare la donna bianca, tutte girate nell’arco di un abbondante decennio, tra il 1963 e 1974. Proprio L’ape regina, prima pellicola in cui Ferreri diresse Tognazzi, è l’oggetto di questa analisi, ed è anche l’opera che introduce, sia pure in forma di totale commedia rispetto a più inquietanti e successive derive grottesche, i motivi del cinema ferreriano, che a ben guardare sono già ampiamente enucleabili, sia pur attenuati dal genere. In anticipo sul Sessantotto, il regista milanese comincia a tessere la sua satira feroce contro una famiglia borghese percepita come ipocrita e decadente, in cui il bigottismo cattolico e l’apparenza della rispettabilità formano una pericolosa unione contro la quale scagliarsi e combattere, un connubio perverso che porta a paradossi palpabili, insoddisfazione e orrori assortiti ben protetti nell’intimità. L’ape regina, in questo senso, è un racconto morale emblematico, una tragicommedia che incontrò le ire dei benpensanti e pesanti tagli della censura, modifiche dei dialoghi e titolo riaggiornato in Una storia moderna: L’ape regina, che è quello con cui ancora attualmente troviamo in circolo la pellicola. L’aggiunta di Una storia moderna potrà oggi sembrare irrilevante, ma se ci pensate bene all’inizio dei Sessanta aveva sicuramente il suo peso nell’impatto sull’opinione pubblica e sugli spettatori. Ad ogni modo, nonostante tagli e modifiche, a distanza di quasi 50 anni e contestualizzando storicamente la vicenda, nell’accostarsi a L’ape regina possiamo ancora trovare quei motivi d’interesse attraverso i quali apprezzare la pellicola. Vediamone brevemente gli snodi essenziali.
Alfonso è un commerciante quarantenne e benestante che dirige un autosalone, ha una vita agiata ed è in procinto di contrarre matrimonio con Regina, una ragazza molto più giovane proveniente dalla buona borghesia cattolica. Regina è illibata e devota a una santa divenuta tale proprio per aver protetto con le unghie e coi denti la sua verginità: le crebbe addirittura la barba per sventare l’oltraggio al suo corpo. Nonostante Alfonso abbia avuto sempre un discreto successo con le donne, ha scelto la ragazza perché proveniente da una famiglia che può dargli la giusta rispettabilità, essendo ella parente di uomini di chiesa e abitando proprio in zona vaticana. Deve aspettare per consumare, e la ragazza è anche piacente e formosa, ma il fidanzamento sarà breve e il lieto momento non si fa attendere. Certo Alfonso non avrebbe mai immaginato che dietro l’apparenza di fanciulla timorata di Dio si nascondesse una donna vogliosa e insaziabile che lo porta in breve tempo allo sfinimento e al calo del desiderio, fino al momento in cui rimane incinta, con gran sollievo del marito. Una volta rimasta incinta, però, la donna comincia progressivamente a trascurare Alfonso, il quale contestualmente perde sempre più energie e voglia di vivere. Lo sfinimento fisico e psicologico si mescolano come un veleno mortale, fino alla prematura dipartita, appena quarantenne e senza nemmeno la gioia di veder nascere il figlio, per consunzione.
Un racconto morale, come evidente e come consuetudine di Marco Ferreri, il quale compie un’operazione abbastanza ardita per l’epoca: attaccare in simultanea sia le istituzioni sociali (la famiglia borghese fondata sul matrimonio), sia quelle religiose (la chiesa, i suoi precetti, i suoi dogmi), due facce dell’ Italia democristiana e opulenta nel pieno del suo sviluppo economico. Non era ancora il Sessantotto, come detto, ma Ferreri aveva voglia di andare controcorrente, sentiva l’urgenza di usare la sua arte come una sorta di martello nietzscheano, quanto meno negli anni Sessanta. Sì, perché il risveglio dal Sessantotto sarà avaro di soddisfazioni per Ferreri, ingenuamente convinto che il cinema – il suo cinema – potesse contribuire a cambiare le cose. Ed è già dal 1969 che il pessimismo surreale – lì dove il surreale maschera, nemmeno poi tanto, quel nichilismo e quel materialismo che scaturiscono dalla morte delle illusioni di cui sono pregne le pellicole dei Settanta del cineasta milanese – di Ferreri si fa più manifesto e riconoscibile, con un’opera-monologo inquietante come Dillinger è morto, nella quale le immagini cominciano a prendere il sopravvento sulla forma di narrazione classica. Tornando a L’ape regina è bene infatti notare come Ferreri si muova ancora all’interno di una forma narrativa abbastanza lineare, nonostante il taglio di importanti scene e la fretta di un finale – anch’esso tagliato, a quanto pare – nel quale non tutto ci è spiegato nel dettaglio. Ciò nonostante il film è piacevole e divertente, sarcastico al punto giusto, strutturato intorno a due protagonisti davvero convincenti: un Tognazzi che comincia a mostrare le stimmate del grande attore, dosando le espressioni con misura, ed una sorprendente Marina Vlady, che calza a pennello un personaggio ambiguo e fintamente angelicato, anch’ella mantenendosi su registri di invidiabile equilibrio recitativo. Ambedue giustamente premiati, sia pur in contesti diversi: migliore interpretazione femminile al Festival di Cannes per la Vlady, e Nastro D’Argento per Tognazzi come attore protagonista. Tognazzi, in particolare, ci lascia di sé un prolungato e apparentemente indecifrabile primo piano, di poco precedente la sua uscita di scena, che al contrario contiene tutti i motivi contraddittori di un personaggio il quale, suo malgrado, si è fatto sopraffare da un meccanismo da lui stesso creato: il suo sogno di buon borghese lo ha prima consumato e poi ucciso.
Ferreri dissemina la pellicola di personaggi emblematici, visivamente anche disturbanti: preti, suore, vecchie zie e qualche “scherzo della natura”, niente che sia gradevole all’occhio dello spettatore, a parte la bella protagonista. I dialoghi sono ben costruiti e la fotografia in bianco e nero non penalizza la pellicola, in quanto gli ambienti sono abbastanza grigi ed essenziali (tutto girato tra casa chiesa e autosalone, più una discesa nella cripta di famiglia). L’opera chiude in modo beffardo consumandosi lentamente, seguendo idealmente il progressivo spegnersi alla vita del protagonista in un’atmosfera quasi distratta. L’angoscia non resta a caldo, perché Ferreri è bravo a dissimulare attraverso la commedia, ma arriva a freddo, rileggendo l’opera per quello che voleva essere ed in effetti è stata: una parabola sulla decadenza dei valori e forse anche di più, un’inversione dei veri valori, sempre secondo l’ottica ferreriana. Logico che in molti, ancora oggi che certe convenzioni obsolete non sono più così diffuse come un tempo (sembrano superate, a volte anche in peggio), non saranno comunque d’accordo con lui. Il Ferreri totalmente disincantato e disilluso, come detto, è ancora a venire, ma le tracce del suo cinema coraggioso, dissacrante e anticonvenzionale – per alcuni anche noioso e avvitato su se stesso – sono qui già determinate e visibili, e proseguiranno sempre in forma di commedia, ancor più allegorica e grottesca, con La donna scimmia, in cui è protagonista una donna pelosa, esibita in un baraccone, che sposa il suo imbonitore e muore di parto. Con Tognazzi nuovamente protagonista. Un cinema da riscoprire, quello di Ferreri, ed il consiglio che posso darvi è proprio di partire da L’ape regina, una storia che forse tanto moderna non lo è più. A 46 anni di distanza, almeno il titolo originale potrebbero pure restituirglielo. Non vi pare?
Federico Magi, agosto 2009.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Marco Ferreri. Soggetto: Rafael Azcona, Marco Ferreri. Sceneggiatura: Pasquale Festa Campanile. Direttore della fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Interpreti principali: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Linda Sini, Riccardo Fellini, Polidor, Achille Majeroni, Walter Giller. Scenografia: Massimiliano Capricciosi. Costumi: Luciana Marinucci. Musica originale: Teo Usuelli. Origine: Italia / Francia, 1963. Durata: 88 minuti B/N.
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