Uno sguardo realistico e disincantato sull’adolescenza, un film che, pur avendo vinto il premio per la regia al Torino Film Festival, passò in Italia generando nelle sale il consueto disinteresse di massa – favorito, come logica vuole in questi casi, dalla pessima distribuzione. La schivata, seconda regia del talentuoso tunisino Abdellatif Kechiche (Tutta colpa di Voltaire, premio Opera Prima a Venezia 2000 – Cous cous, 2007) è un’opera di viva potenza espressiva, che indaga l’adolescenza al margine delle banlieu parigine evitando tutti i possibili stereotipi del caso, al contrario partendo da un punto di vista che, attraverso i sottotesti proposti, universalizza il tema trattato centrando la pellicola sul linguaggio e sulla complicata comunicazione affettivo-amorosa propria all’età inquieta, con annessi dubbi, incertezze, massimalismi e cortocircuiti di comprensione. Vediamone brevemente la trama.
Alla periferia di Parigi vive Lydia, adolescente che sogna i palcoscenici e che recita come prima attrice nella commedia scolastica ispirata al testo Gioco del caso e dell’amore di Marivaux. Lydia è affascinante e sensuale nel suo candore adolescenziale, è sveglia e accende improvvisamente il cuore dell’amico d’infanzia – folgorato dall’alchimia tra la bellezza e l’abito di scena della giovane – e compagno di classe Krimo, ragazzo della comunità maghrebina che in conseguenza dell’inatteso sommovimento emotivo lascia Magalie, la propria ragazza, si allontana progressivamente dalla banda di amici, fino a “corrompere” un compagno di classe per avere la parte di Arlecchino accanto a Lydia. Ma Krimo è un ragazzo introverso, che schiva le difficoltà della vita e con esse anche le grandi passioni. Non ama il teatro, non ama leggere, è a disagio nel restituire le emozioni davanti a qualcuno. Violenta la propria natura per amore ma con scarsi risultati; un amore davvero annichilente tanto che anche gli amici, pur distanziati, se ne accorgono. Lydia, al contrario – in questo molto femminile –, una volta resi espliciti da Krimo i suoi sentimenti per lei, lo tiene sulla corda dicendosi indecisa. Ma il meccanismo è oramai in atto, sia gli amici di Lydia che quelli di Krimo si sono accorti che qualcosa è cambiato, che bisogna trovare nuovi equilibri e fare chiarezza. Ci pensa l’amico Fathi, in modo non richiesto e poco convenzionale, a mettere Krimo davanti a Lydia per ottenere una risposta immediata. Ma l’atmosfera quasi surreale, che vede i due ragazzi dialoganti all’interno di un’ auto rubata, e i loro amici fuori in attesa, è violentemente modificata dall’intervento brutale di alcuni poliziotti. Ad avvenuta rappresentazione, la magia dell’intreccio vita-teatro svanisce improvvisa come era cominciata, proprio nel momento in cui Lydia, probabilmente, possiede la risposta tanto attesa dal ragazzo. In fondo, Krimo su quel palco non era mai salito. Aveva schivato anche Arlecchino e con esso il destabilizzante sentimento per l’amata Lydia. Evaporato in un istante quando il sipario è calato sul Gioco del caso e dell’amore.
Davvero suggestiva e ben articolata l’idea portante dell’opera, immaginare una realtà in cui attraverso il linguaggio settecentesco – quello della commedia di Marivaux – si potessero superare gli impacci del gergo per esprimere i propri sentimenti. Di più: l’uscire da sé per entrare in una maschera, per liberarsi da paure e inibizioni, per ampliare lo spazio emotivo tanto da esser ridondanti, padroni di un linguaggio fisico e verbale fino ad allora sconosciuto, è ciò che può farci scoprire altri mondi, altrimenti preclusi ai non sognatori. Ma non è cosi facile uscir da sé, vivere davvero ciò che si sente in un mondo che ha irreggimentato le nostre modalità espressive e con esse i sentimenti. Abdellatif Kechiche costruisce una pellicola in cui la violenza del linguaggio giovanile urbano, in continuo interscambio con quello della rappresentazione teatrale, genera nello spettatore una sorta di straniamento, sia per non incorrere nei cliché narrativi e nei soliti criteri d’indagine psico-sociale da quattro soldi sui sobborghi delle metropoli occidentali, sia perché vuol restituirci la complessità di una gioventù che, al di là degli ambienti di provenienza e delle culture e fedi delle terre d’origine, è accomunata sempre, nelle possibilità e nelle aspirazioni, dal contesto – e dunque dalla classe – sociale ospitante. E la rappresentazione immaginata per i ragazzi dalla loro insegnante, Gioco del caso e dell’amore, è una scelta non casuale del regista proprio per rafforzare questo concetto. È un’opera evidentemente meta cinematografica, nella quale la potenza dei dialoghi – pieni zeppi di parolacce colme di senso, mai gratuite – è davvero sorprendente: pur essendo verboso e con dialoghi un pochino ripetitivi, gravato in alcuni frangenti da un doppiaggio che attinge molto e immotivatamente dal dialetto romano, il film brilla proprio nella sua capacità di comunicare emozioni, verbalmente e non.
La regia si concentra in modo particolare sui primi piani, anche ossessivamente, per catturare gli sguardi dei ragazzi, facendo ampio uso della camera a mano per amplificare l’essenza del realismo che si voleva restituire. La fotografia, anch’essa in linea con l’estetica complessiva dell’opera, sceglie colori desaturati per essere vicina alla forma documento. Ma La schivata non è affatto un documentario, è davvero una storia ricca di spunti e di suggestioni, che cerca di trovare la misura nell’eccesso, debordando in alcune sequenze fino all’iperrealismo (la terrificante sequenza in cui la polizia perquisisce i ragazzi) e rifuggendo dai luoghi comuni e dai pistolotti edificanti, moralistici o fintamente pedagogici: la multietnia delle banlieu, il meticciato, sono dati di fatto, non vi è né l’apologia della società multirazziale né il contrario, tanto meno ci si sofferma sui canonici e sempre “paraculi” – narrativamente parlando – aspetti delinquenziali di realtà “incazzate”, devianti e marginali come quella propria dei sobborghi parigini. Si centra l’attenzione altrove, sui sentimenti universali degli adolescenti e sulla loro diversa e articolata possibilità di espressione.
Tutti bravissimi e tutti non professionisti, o quasi, i giovani attori, con menzione speciale per Sara Forestier nei panni di Lydia, per questa interpretazione vincitrice del premio César come migliore promessa femminile, e successivamente voluta da Tom Tykwer per Profumo – Storia di un assassino. Un film spontaneo, vero, non artificioso e senza sovrastrutture ideologiche, nonostante il sottotema del teatro come forma di riscatto sociale. Potente, comunicativo: capace di emozionare anche attraverso il turpiloquio. E con una morale non moralistica. Se vi interessano i temi trattati e siete annoiati dal provincialismo dell’italico cinema attuale e dalle consuetudini hollywoodiane, questa è una pellicola assolutamente da recuperare.
Federico Magi, febbraio 2009.
Edizione esaminata e brevi note
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