Oggi ho finito di leggere un romanzo, Il signore della fattoria, di Tristan Egolf. Appena chiuso, l’ho lasciato un paio di minuti sul bancone della sala di lettura. L’ho guardato. L’ho ripreso in mano. L’ho aperto. Ne ho riletto le pagine iniziali.
“Arrivò un momento in cui, dopo che la mischia fra Baker e Pottville si era dispersa, con gli ultimi venti o trenta litiganti fra messicani del mattatoio avicolo Sodderbrook, assiani di Buzzard’s Roost, troll di Dowler Street e topi di fabbrica di Baker est pigiati, in manette, sui furgoni cellulari dello sceriffo Tom Dippold e spediti agli scannatoi già pieni zeppi della Keller & Powell, dopo che i roghi di immondizia in Main Street erano stati spenti e le ceneri sparse tra le macerie fumanti di Gingerbread Row, dopo che la palestra della scuola era stata presa d’assalto con i gas da una squadra di poliziotti stupefatti e malequipaggiati provenienti da tutta la regione, dopo che il saccheggio generale lungo la Geiger si era placato, la sommossa fra la Terza Strada e la Poplar era stata sedata, un branco inferocito di minatori del giacimento numero sei della Ebony Steed aveva da tempo reso la sua malaugurata visita amichevole ai topi di fiume sulla riva del Patokah in una processione di pick-up trasformati in rulli compressori, e quando ormai il resto della comunità era a tal punto sommerso dai suoi stessi escrementi che persino i commentatori del notiziario di Pottville 6 dovettero ammettere che Baker sembrava in attesa dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, arrivò un momento in cui, all’apice del pandemonio, ogni cittadino della contea di Greene ancora in possesso delle proprie facoltà mentali si rese conto esattamente di chi fosse e quale significato richiamasse il nome di John Kaltenbrunner.”
Questo l’incipit. La frase con cui comincia questo romanzo.
Una volta che avrete letta questa, e continuerete, sarete trasportati qui dentro, nel posto in cui il peggio dell’uomo è la normalità, in cui tutto è così paradossalmente reale da diventarlo ancora di più. Ogni pagina è materia, ogni parola è materia. Davvero. Lo senti. I personaggi tagliati con l’accetta da coglierne ogni sfumatura, da non averne.
Non posso essere obiettivo scrivendo di questo libro, l’ho inseguito per più di sei mesi, quasi un anno? La prima volta che ho visto il nome di Tristan Egolf era sulla costola del suo secondo romanzo, Sonata per Louise e violino (credo, spero) edito da Frassinelli, come questo. Che titolo, pensai. Mi piaceva. Il sette maggio 2005 Tristan si è tolto la vita. Leggo un articoletto che parla de Il signore della fattoria, fa i nomi di Faulkner, Steinbeck…mi dico interessante. La sua storia, pure. Egolf è americano, passa anni viaggiando per l’Europa, suonando in gruppo punk, spedendo il suo Signore della fattoria a case editrici d’oltreoceano, e si dice che l’hanno rifiutato in cinquanta (un numero, per dire, credo) e lui che ogni volta ci torna sopra e lo corregge e lima. In Francia conosce la figlia di uno scrittore, Patrick Modiano, e lui ha questo manoscritto, e viene pubblicato presso Gallimard. Acclamato dalla critica, gli americani si accorgono di lui. Nella quarta di copertina della prima edizione italiana c’è un pezzo di una recensione sul NY Times “Il signore della fattoria ha il respiro del talento naturale all’opera – incontro raro e ai confini della pazzia – che lo rende irresistibile. […] La cifra del romanzo è l’iperbole: ogni cosa brutta a Baker (e la cittadina ospita ogni contraddizione e tipologia umana del pianeta) è la peggiore possibile nel suo genere. […] altra specialità da non perdersi è l’invettiva sapientemente dosata.” Naturalmente, mai fidarsi delle quarte. Comunque, a giugno lo incontro la prima volta in libreria. Le prime pagine le ho lette una decina di volte prima di comprarlo. E l’ho preso solo a dicembre, per Natale, una prima edizione a un prezzo stracciato, mancante delle ultime pagine, quelle con l’indice dei capitoli e via dicendo. E sulla prima pagina, “Paola, Firenze 2001”. Un’altra storia.
Ma ho lasciato trascorrere altro tempo, leggendo nel frattempo Idioti, di Jacob Arjouni (divertente e…se volete sapere come mai questo proliferare di talk show e reality show…eheheh, attenti alla fata verde), e Puerto Plata Market di Aldo Nove (mi aspettavo molto di più…).
Insomma, non posso essere obiettivo. Mi piace.
John Kaltenbrunner è uno dei personaggi letterari che più riescono a trascinarti, a portarti in giro e farti vedere le cose, e tutto questo senza una parola.
Il romanzo è scritto in prima persona plurale. C’è un “noi” come narratore. Che ha un obiettivo ben preciso, dare la versione più esatta possibile, e naturalmente faziosa, della vita del giovane Kaltenbrunner nel cuore della “corn belt” (la regione del grano) americana.
Un libro in cui non si trova un dialogo diretto, l’autore abolisce qualunque tipo di virgolette, è tutto un si arrabbiò, gli disse di, e così via. 458 pagine senza un dialogo, e non ci si accorge dell’assenza. Con un protagonista che se parla nella prima metà del libro è per attaccare qualcuno, e che incontra la prima persona amica verso pagina 200. Fate voi.
Il silenzio. E nel silenzio, attraverso questo, sembra catalizzare ogni cosa. John non si arrende. John viene scaraventato a terra, ma si rialza. Viene di nuovo scaraventato a terra. E si rialza. Fino a quando la comunità della sua cittadina, Baker, 4000 anime, non si trova a fare i conti con se stessa.
Ma chi è John? John è “un caso di iella nera”. Un attira-disgrazie. Il silenzio della tensione, della rabbia, dell’insofferenza, della voglia di fare. La sua storia una serie di disavventure, no, di tragici avvenimenti, surreali e veri. Il bao nero, diremmo noi da queste parti.
Chi sono i “noi” che raccontano?
Sono i suoi compagni, sodali, colleghi di lavoro, “le ramazze della collina”, “i 22 di Baker” di cui John è il numero 23 (come Michael Jordan…?). Decidono di scrivere e raccontare questa storia perché in paese sono nate e si diffondono leggende sulla figura di John, tese ad evitare che la responsabilità dei fatti accaduti cada sulla stessa popolazione, in una lavata di mani generale. “Tutto ciò che siamo e che abbiamo fatto servirà da capro espiatorio per un esodo di massa verso l’assoluzione.”
Baker è gli Stati Uniti agricoli, Egolf ci descrive persone incapaci di assumersi responsabilità di avvenimenti per un quieto vivere di facciata. Il nemico è altrove. Non qui. Non siamo noi ad aver fatto questo. È stato quel Kaltenbrunner, con le sue “ramazze della collina”.
“Le ramazze della collina”, dove con collina si intende la collina della discarica, e per ramazze, le ramazze, le scope. I netturbini, quelli che passano a prendere l’immondizia delle case, delle aziende, dei locali, degli stabilimenti…ma se l’immondizia non venisse più presa e si accalcasse per le strade, nei giardini, nei…? Il sudicio dell’essere umano si rende visibile, sotto gli occhi di tutti, e al sudicio esterno corrisponde il sudicio interno che viene fuori ed esplode.
Egolf ci racconta tutto fin dall’inizio. Sappiamo come finirà il libro. Ne conosciamo i fatti. Ma sono solo titoli di giornale. Ce ne dà nei vari capitoli le versioni dettagliate. Anticipa l’episodio successivo senza svelarlo, ti fa fremere di arrivarci, e quando ci sei rimani affascinato da come è riuscito a mostrartelo. Queste pagine sono materia. Come tenere in mano la terra concimata, e dove è stata seminata, e vedere, sentire, annusare, toccare, gustare la crescita del seme.
Può darsi che sia autobiografico, chissà. C’è nella storia di John, in come viene narrata, qualcosa che si sente in maniera così forte, una partecipazione dell’autore alle vicende che davvero mi ha catturato. Il linguaggio che usa ricorda sì Faulkner, e sì assomiglierà pure al tale e al talaltro, ma questi mi sembrano giochi intellettuali. Non m’importa se ha usato un accordo al modo di Schubert, e un passaggio alla Mozart, il risultato che ne è venuto fuori è originale e spiazzante. Ti mostra un’immagine diversa degli Stati Uniti, che offrono possibilità perfino a uno come John (che vuol dire, uno come John?) e che al tempo stesso possono gettare nel cesso quella possibilità, tirare lo sciacquone, seppellirti sotto ciò che fa più comodo per allontanare da sé le responsabilità.
Forse ho scritto troppo e niente di tutto questo vi sembrerà interessante. Finisco con il titolo del primo capitolo, “Isabelle, Hortense e Bucefalo” perché sono nomi. John Kaltenbrunner è una persona incredibile, onore al merito a Tristan Egolf.
Questa la scrissi a Febbraio del 2006, quasi un anno fa. Da allora il libro non l’ho riletto. Ci ho solo pensato. Ho letto, semmai, qualche altra notizia sulla vita dell’autore. Questo ha fatto sì che certi aspetti del romanzo mi si parassero di fronte con evidenza.
La verità è che erano già forti prima, ma quando scrissi ‘sta roba sopra, pensai di sintetizzare un po’. Avevo così fretta di scriverla, che saltai alcune cose, così. Senza un motivo apparente. O meglio, era Furia. La Furia non consiglia mai troppo bene. Così adesso cerco di aggiungervi un pezzo. Sicuramente l’ultima frase che ho scritto, “John…” è esagerata. Ma in quel momento la sentivo così. E non è che posso stare, adesso, a dire “non l’ho scritta”, o cancellarla solo perché non la sento più in quel modo. La lascio stare. Ecco tutto.
Il romanzo ti prende davvero. I personaggi ti restano dentro anche una volta finito di leggerlo. Una scrittura potente. La storia di questo ragazzo, John Kaltenbrunner, è la storia di un tipo silenzioso. Ne ho già scritto, di questo. Non ho scritto invece del motore di tutta la storia. Il motore è un’assenza. A John muore il padre, e di lui non gli restano che fotografie, e racconti delle poche persone che passano da casa Kaltenbrunner, operai che lavoravano alle miniere, agli scavi, sotto l’ingegnere Kaltenbrunner. E una stanza. Chiusa. Come una cassaforte. John vi entrerà, e scoprirà. Indagherà su suo padre. Chi era? Qual è stata la sua vera fine? Ma a modo suo. Se ne metterà gli abiti. E, piano piano, ne diventerà una strana copia. Per certi versi, la storia di una vendetta. Ora che ci penso, come fosse tutto un grande piano. La costanza negli anni di John è premiata. Il mondo si svela per quello che è. Almeno per un po’. Poi ripiomba, o cerca di, sotto una maschera di terracotta. Non c’è una storia d’amore, in questo libro. Le figure femminili sono negative. Senza eccezioni. Il ragazzo non ascolta musica figa. Non fa per niente cose fighe. Non è il solito ribelle. Né il solito genio. Un disadattato mediocre, si potrebbe dire. Ma neanche. Un invisibile, anche. Un rifiuto.
Ti carica, questo romanzo. A me ribolle il sangue solo a scriverne, adesso. Il che vuol dire che anche stavolta non sto scrivendo oggettivamente. Pazienza. Non ho letto gli altri suoi libri. Ne ha scritti altri due: Sonata per Louise e violino (il titolo originale è abbastanza diverso) edito sempre da Frassinelli, e un romanzo che è uscito a fine 2005 negli USA, ancora non tradotto da noi, e che si intitola Kornwolf.
Edizione esaminata e brevi note
Tristan Egolf (19 dicembre 1971 – 7 maggio 2005), scrittore americano, musicista, attivista politico. Tre romanzi, di cui uno postumo, Kornwolf, inedito in Italia. Gli altri due, Il signore della fattoria e Sonata per Louise e violino editi nel nostro paese da Frassinelli sono oggi (2019) fuori catalogo.
Tristan Egolf, Il signore della fattoria, trad. M. L. Cantarelli, Frassinelli, 2001
Articolo apparso in Lankelot il 13 gennaio 2007. Note riviste. ab, marzo 2016 Aggiunta di link, correzione refusi, novembre 2021. Curiosità: la recensione sul New York Times, firmata da Laura Miller, di cui ho messo il link e che ho letto solo oggi (2021) non è del tutto positiva, anzi. Riconosce a Egolf talento, ma mette in evidenza all’inizio i rifiuti statunitensi con l’apprezzamento europeo e “sure enough, ”Lord of the Barnyard: Killing the Fatted Calf and Arming the Aware in the Corn Belt” is exactly the sort of fauvist extravaganza Europeans welcome as quintessentially American: brash, vigorous, violent and crude.” oltre a dire che l’autore era un autodidatta e che il romanzo doveva essere editato (mancano i dialoghi, tra le altre cose,etc.).
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