“Che cos’è un’educazione?”
Questo l’interrogativo che Meneghello si pone in apertura del libro che rievoca la formazione di S., alter-ego dell’Autore, svoltasi durante gli anni del fascismo nel Veneto, tra Malo, Vicenza e Padova.
La prima idea per quest’opera venne a Meneghello nel 1944 nello stesso luogo in cui si svolge una scena de “I piccoli maestri”, il suo romanzo più noto.
I “Fiori” ne costituiscono l’antefatto ideale, poiché descrivono lo scenario culturale in cui alcuni giovani della sua generazione si sono formati e soprattutto sottolinea come un incontro fondamentale con un vero educatore sia stato determinante per le loro scelte.
Negli anni Sessanta, intento a scrivere “I piccoli maestri”, l’Autore annota svariati pensieri sull’educazione – anzi sulla diseducazione – e li lascia volutamente fuori dal libro fino al 1976, quando decide di svolgere più ampiamente l’argomento. Le storie narrate sono fiori italiani, che vanno trapiantati prima che muoiano nel vaso. L’educazione deve coltivarli e farli sbocciare.
Meneghello procede per gruppi di ricordi con la sua consueta ironia: è un abile ritrattista di professori e compagni di scuola, ma anche un buon argomentatore quando si tratta di riflettere sul senso di fatti e d’esperienze con la prospettiva di chi è ormai cresciuto.
Le prime riflessioni riguardano la quarta e la quinta elementare, all’epoca già scuole non dell’obbligo e riservate a una minoranza. La voce del ricordo va ai libri di lettura e ai sussidiari (testo unico per tutti): a qualche pagina di quest’Autore sembra essersi ispirato Eco ne “La misteriosa fiamma della regina Loana”. Comuni sono l’entroterra storico, la presa di coscienza, l’approdo alla resistenza dopo la maturazione di una scelta. Mentre Eco è quasi enciclopedico nel ricercare le manifestazioni della cultura di massa, Meneghello invece sfoglia quei vecchi libri e dirige lo sguardo soprattutto verso la scuola, la cultura, il provincialismo riflettendo sull’importanza di questi fattori nella formazione del letterato.
Sono gli anni del fascismo e tutta l’educazione ne rispecchia la presenza, entro i dieci anni i ragazzini hanno già assorbito alcuni concetti-base (la grandezza del duce e del regime, il nazionalismo) così come hanno imparato il catechismo.
La scuola insegna ad accogliere queste idee come “quadro indisputabile della realtà” e i giovani crescono senza metterle in discussione.
Dopo le elementari ci sono il ginnasietto, il ginnasio e il liceo.
S. è uno studente brillante, ricorda la sua iniziazione poetica con lo Zanella, le sue preferenze per le materie umanistiche, osserva la ciclicità della scuola, dove, per fasi, tutto ritorna e si ripete.
La cultura impartita è molto teorica:
“Era parte dello statuto della cultura che essa venisse esposta come la Sindone, non trattata come un servizio pubblico. La cultura vive, splende e minaccia per conto suo: in senso stretto non c’entra con la gente. La cultura è come la Peste, salvo che è molto più ristretta: è fatta solo per gli appestati, gli altri non contano. Come la Grazia, che non ha una dimensione sociale”. (p.31)
Quel che viene trasmesso è un sistema non di cose, ma di parole sulle cose (e quale differenza allora tra la lingua letteraria aulica fatta solo di parole e il vivissimo dialetto aderente alle cose e presentato in “Libera nos a malo” e “Pomo pero”).
Viene tramandato un sistema di parole con una sua sintassi e a poco a poco le cose vengono fornite dai testi stessi, si tratta di cose-parole e non cose-cose. S’intravede già tra le pagine il letterato, personaggio un po’strano, nel quale i professori vedono un possibile adulto cui sono disposti al massimo ad augurare buona fortuna.
La scuola propone un sistema culturale avulso da quello esterno.
“La gente non solo viveva, ma utilizzava inoltre un suo sistema di forme culturali molto vigorose e tuttavia – così sembrava a S. – prive del mordente ultimo della cose che incidono sulla mente. Non era roba da intendere ma da adoperare, roba già fatta. C’era nel cinema, nelle canzoni, nelle cronache sportive dei giornali, nei programmi da ridere alla radio: non forniva idee alla gente, né serviva a mutare gli animi o la vita: anzi, forniva oggetti confezionati, delle macchinette culturali su cui la gente si divertiva a pedalare”. (p.76)
Oggi aggiungeremmo la televisione all’ elenco.
Le canzonette hanno un ruolo determinante e questa sembra essere la cultura degli italiani. Meneghello ha uno sguardo ironico e disincantato, soprattutto constatando che S. accetta tutto questo come aspetto fisiologico del vivere.
Lo spirito critico ancora non si è sviluppato, né la scuola fa nulla per suscitarlo, anzi, frequentandola, i ragazzi come lui si sono fatii una certa idea della cultura letteraria come repertorio di vocaboli e avverbi da usare nel linguaggio e come insieme di concezioni a carattere speculativo (ad esempio l’Assoluto).
“La scuola non era, in senso serio, cattolica né fascista. Ciò che vi era dentro di insoddisfacente non aveva bisogno di appoggiarsi al cattolicesimo o al fascismo, se non come ci si appoggia ai vicini sul tram, poco e irregolarmente”. (p.88)
Meneghello si rivela come uno spirito antiretorico e ricercatore di una cultura che non consista solo nell’imparare, ma si colleghi al vivere e sia conoscenza, non esposizione ineccepibile di quel che si sa.
Arrivato all’università di Padova – prima Lettere e poi Filosofia – S. esercita la sua ironia su insegnanti illustri (il latinista Concetto Marchesi, che faceva un “numero sacerdotale” di ogni lezione, già breve e costelllata pure di silenzi), incontra la sottocultura goliardica e non nasconde gli esiti brillanti dei suoi studi.
Nel 1940 a Bologna S. vince, come rappresentante dei GUF di Padova, i Littoriali nel campo degli studi di dottrina fascista. Diventa “littore giovanissimo” e ha così l’occasione di entrare in un giornale come apprendista e di sprovincializzarsi. Meneghello non nasconde di esser stato fascista come la maggioranza degli italiani, di aver fatto anche domanda, con risposta negativa, per andare volontario. Proprio la vicenda di un coetaneo caduto in guerra dopo essersi arruolato lo farà riflettere su un’educazione dagli esiti mortali.
L’esperienza al giornale inizia a schiudere nuovi orizzonti al protagonista, ma l’incontro più importante per la sua formazione è quello con Antonio Giuriolo, un professore antifascista, che porterà S. e altri ragazzi al compimento della loro educazione e all’antifascismo.
A Giuriolo – non sopravvissuto alla guerra, morirà in battaglia nel 1944 a trentadue anni – spetta il merito di aver insegnato con la vita il valore della libertà e la coerenza, fu un maestro e un esempio, ma sempre “in un’aura di sobrietà, di riserbo, di pudore”.
Viene alla mente un altro illustre insegnante, Augusto Monti, che ebbe per allievi Cesare Pavese, Massimo Mila, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Vittorio Foa al liceo D’Azeglio di Torino.
Nelle pagine finali Meneghello evidenzia l’importanza di questa figura, che sembra finalmente far aprire gli occhi ai suoi allievi per il suo rapporto vivo con ciò che ammira o detesta. Egli è tutt’uno anche con i suoi libri e grazie a lui la cultura diviene qualcosa di vivo per i giovani; S. si sente pensare per la prima volta e s’avvia verso una presa di coscienza.
“Se in principio gli avrebbe fatto spavento e ribrezzo l’idea di poter diventare «antifascista», ora quel sentimento s’invertiva, e alla fine sarebbe inorridito di essere ancora fascista”. (p.190)
In appendice al libro vi è una raccolta di nuovi fiori raccolti negli anni Settanta, che si articola in tre parti: “Le scuole di Saverio. Materiali per un saggio sull’educazione scolastica di un italiano” (1972); “Appunti per un libro di Claudio” (1775); “Tre passi” (1976).
articolo apparso su lankelot.eu nel maggio 2007
Edizione esaminata e brevi note
Luigi Meneghello (Malo-Vicenza, 16 febbraio 1922 – Thiene, 26 giugno 2007), scrittore italiano. Ha studiato Filosofia all’Università di Padova. Dopo l’8 settembre partecipa alla Resistenza e aderisce al partito d’Azione. Nel 1947 si trasferisce in Inghilterra, dove fonda e dirige la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di Reading. Dal 1980 divide il suo domicilio tra Reading e Thiene, dove nel 2000 si trasferisce definitivamente dopo la morte della moglie. Sua opera prima è ”Libera nos a Malo” (1963), cui seguono “I piccoli maestri” (1964, ed. riveduta 1976), “Pomo pero” (1974), “Fiori italiani” (1976), “Bau-sete” (1988), “Il Dispatrio” (1994). Ha scritto anche vari saggi che contengono elementi autobiografici e studi sulle tradizioni dialettali: “Jura” (1987), “Maredè Maredè” (1991). Negli ultimi anni Meneghello ha pubblicato tre volumi di “Carte”, che raccolgono i suoi appunti dagli anni Sessanta a oggi. Il volume “Trapianti” comprende una serie di traduzioni poetiche dal’inglese al dialetto vicentino. Nel 2002 il regista Mazzacurati e l’attore Marco Paolini gli hanno dedicato il film “Ritratti”, frutto di una conversazione con Meneghello svoltasi in tre giornate, durante le quali lo scrittore rievoca le vicende della sua vita.
Luigi Meneghello, Fiori italiani, con un mazzo di nuovi Fiori. Introduzione di Tullio De Mauro. Milano, Bur 2006.
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