Dopo la poco convincente parentesi americana con Noi due sconosciuti, la cinquantenne regista e sceneggiatrice danese Susanne Bier torna a dirigere in patria un film pensato e costruito appositamente per concorrere nelle rassegne festivaliere. In un mondo migliore è, in effetti, il classico film a cui la critica non rimane insensibile, sia per i temi trattati che per il ritorno a un cinema indipendente che porta ancora con sé qualche traccia del Dogma e del maestro Lars von Trier. È un film a tesi, peraltro ben strutturate, sull’inevitabilità della violenza e della vendetta quando scattano alcune dinamiche psicologiche che, secondo la Bier, possono manifestarsi in quasi tutti i soggetti e intervenire a qualsiasi latitudine e in qualsiasi contesto sociale.
Il Dottor Anton (Mikael Persbrandt), che opera in un campo profughi in Africa, torna a casa nella monotona tranquillità della borghese provincia danese. Ha una moglie, dalla quale è in procinto di separarsi, e un figlio, Elias, vessato da un compagno di scuola e reso zimbello agli occhi di tutti. Elias intreccia una rischiosa amicizia con un neo arrivato in classe, Christian (William Johnk Nielsen), ragazzo freddo e taciturno venuto a vivere in Danimarca da Londra dopo aver perso la madre per una vorace forma cancro. Christian sfoga la sua rabbia nella violenza e nella vendetta, e coinvolge Elias in pericolose situazioni che rischiano di culminare in tragedia.
Come si diceva, una pellicola un po’ troppo schematica, con idee ben chiare a supporto che sfociano in una riflessione esistenziale sull’uso della violenza e sulla capacità di relazionarsi al dolore e alla perdita. Un’opera dagli intenti didattici manifesti, forte di uno sguardo morale che a qualcuno potrà anche sembrare moralistico. Detto della scelta netta e inequivocabile fatta dalla Bier, ovvero quella di calare i contenuti del suo cinema dall’alto, è bene rimarcare come In un mondo migliore sia un’opera dalle potentissime suggestioni, che coinvolge senza ombra di dubbio gli spettatori e che si fa apprezzare per una notevole capacità della regista danese nell’uso del mezzo tecnico e nel saper valorizzare tutti gli attori in scena. Prove importanti che lasciano il segno, in particolare quelle dei due personaggi più lontani proposti sulla ribalta: il medico filantropo, interpretato da Mikael Persbrandt, e il glaciale adolescente, i cui panni sono indossati dall’ottimo e inquietante William Johnk Nielsen, un ragazzo di cui probabilmente sentiremo ancora parlare. La pellicola vive di forti contrasti, sia visivi che narrativi, poggia su un montaggio alternato in cui l’Africa e la sua popolazione indigente fanno da contraltare alla normalità di una provincia danese che nasconde i suoi drammi privati sotto la patina di una realtà ordinata e conforme.
È un cinema che piace quello della Bier, nonostante il suo massimalismo (soprattutto quella del medico è una figura che sfiora l’irreale per quanto è connotata a senso unico) e i rischi di scadere nel moralismo, in particolare per la disinvoltura con cui accosta temi importanti senza per questo proporre allo spettatore indigeribili polpettoni minimalisti. Un film senza sé e senza ma, che va diritto per la sua strada fino a scandagliare l’anima profonda dei personaggi, restituendoci alcuni inevitabili interrogativi che fanno lieve breccia nelle inossidabili disposizioni iniziali. Ma è sempre il pensiero forte che può sconfiggere quello debole (il dialogo vince sulla violenza, il perdono sulla vendetta, nonostante gli umani vacillamenti), secondo la Bier, che sceglie un finale consolatorio nel quale il dramma si stempera nella speranza: il male oscuro che s’annida nel cuore di Christian può essere vinto da un caldo e inatteso abbraccio. Epilogo che ha fatto storcere il naso a qualcuno, il quale ha imputato alla regista danese di non aver avuto il coraggio di sviluppare il dramma fino in fondo.
Che convinca del tutto o meno, In un mondo migliore è una pellicola dal respiro ampio e di una certa eleganza e compostezza formale, nonostante i residui di Dogma e le velate influenze di von Trier, il quale peraltro era molto meno sottile della Bier nel concepire opere morali(stiche) – ricordiamo, a questo proposito, Idioti, Dancer in the dark e, nonostante le apparenze, anche l’ultimo Antichrist. Un cinema che può facilmente mettere d’accordo spettatori e critica, come è avvenuto all’ultimo Festival di Roma in cui In un mondo migliore, in concorso nella Selezione Ufficiale, ha ottenuto sia il Premio della Giuria che quello del pubblico. L’opera, che rappresenta la Danimarca agli Oscar, probabilmente finirà anche nella cinquina finale, c’è da scommetterci, proprio per questo suo fondere cinema etico, passione civile e capacità di intrattenere senza incorrere in manifeste banalità.
Federico Magi, dicembre 2010.
Edizione esaminata e brevi note
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