Aleramo Sibilla

Una donna

Pubblicato il: 18 Ottobre 2006

“In verità, al di fuori della somma di energie ch’io spendevo attorno al bambino, era in me un’incapacità sempre maggiore di vedere, di volere, di vivere: come una stanchezza morale si sovrapponeva a quella fisica, lo scontento di me stessa, il rimprovero della parte migliore di me che avevo trascurata, di quel mio io profondo e sincero, così a lungo represso, mascherato. Non era un’infermità, era la deficienza fondamentale della mia vita che si faceva sentire. In me la madre non s’integrava con la donna: e le gioie e le pene purissime in essenza che mi venivano da quella cosa palpitante e rosea, contrastavano con un’instabilità, un’alternazione di languori e di esaltamenti, di desiderii e di sconforti, di cui non conoscevo l’origine e che mi facevano giudicare da me stessa un essere squilibrato e incompleto” (p. 63).

L’autobiografia di Sibilla Aleramo vuol essere sia una testimonianza umana sulla maternità, sulla condizione della donna e sulla molteplicità di ruoli – talvolta non facilmente conciliabili tra loro – che da sempre le donne incarnano, sia un’opera letteraria indirizzata a tutti, uomini e donne.

Certamente non è uno di quei libri autoreferenziali, dove l’autrice si rivolge soltanto alle sue simili, in una sorta di circolo chiuso, dal quale il maschio viene escluso in quanto tale. Così si esprime infatti la scrittrice:

“In realtà la donna, fino al presente schiava, era completamente ignorata, e tutte le presuntuose psicologie dei romanzieri e dei moralisti mostravano così bene l’inconsistenza degli elementi che servivano per le loro arbitrarie costruzioni! E l’uomo, l’uomo pure ignorava sé stesso: senza il suo complemento, solo nella vita ad evolvere, a godere, a combattere, avendo stupidamente rinnegato il sorriso spontaneo e cosciente che poteva dargli il senso profondo di tutta la bellezza dell’universo, egli restava debole o feroce, imperfetto sempre. L’una e l’altro erano, in diversa misura, da compiangere” (p. 105).

E ancora: “bisogna riformare la coscienza dell’uomo, creare quella della donna!” (p. 135).

La storia narrata è tanto tragica quanto purtroppo reale e non insolita per l’epoca. La famiglia d’origine di Sibilla è borghese: un padre intraprendente, originale, ma autoritario; una madre sottomessa e mesta, dai nervi fragili, figura scialba rispetto all’esuberante genitore.

L’autrice bambina è sveglia, intelligente, sensibile, è la figlia maggiore di quattro, è la prediletta del padre, figura inizialmente idealizzata e mitizzata, probabilmente in linea col complesso edipico tipico dell’età.

Quando la ragazzina ha dodici anni, il padre decide di trasferirsi da Milano in una cittadina del Mezzogiorno, dove è stato incaricato della direzione di un’industria chimica. Gli amati studi vengono interrotti, Sibilla lavora come impiegata nella fabbrica paterna, le piace essere indipendente e il più possibile libera, cresce il suo senso d’isolamento morale rispetto alla famiglia e soprattutto rispetto agli abitanti del paese di mentalità ipocrita, gretta, ignorante.

La giovane percepisce sempre più una mancanza d’armonia e di accordo tra i suoi genitori, la madre scivola inesorabilmente verso la depressione fino a tentare il suicidio, il marito la tradisce. I loro rapporti si faranno sempre più freddi, finché lo squilibrio mentale materno diverrà così grave da richiedere l’internamento in manicomio.

Frattanto Sibilla cresce, a quindici anni conosce un dipendente del padre venticinquenne che la circuisce e poi la violenta.

A poco più di sedici anni lo sposerà senza aver fatto parola con nessuno della violenza subita e si apriranno per lei le porte di una sorta di carcere, nel quale trascorrerà dieci anni della sua vita.

Diverrà madre a diciassette anni, incatenata – solo per amore del bambino – a un uomo violento, gretto, meschino, ignorante e intellettualmente inferiore a lei. Crollata definitivamente la forte figura paterna di riferimento – il genitore tradisce la moglie, è dispotico e tirannico con gli operai – Sibilla cerca invano un equilibrio e una realizzazione, per lei impossibile, nel solo ruolo di moglie e madre. Tenterà anche il suicidio.

L’autobiografia qui diviene anche racconto di formazione e maturazione: poco a poco, con fasi alterne, riflessioni e non poco dolore, la protagonista perviene, nell’arco di dieci anni, alla decisione definitiva di lasciare la famiglia – soprattutto l’adorato figlio – per seguire la sua vocazione umana e letteraria ed essere il più possibile una donna libera e indipendente. L’abbandono del tetto coniugale, per legge, le fa perdere anche i diritti sul bambino e perciò il distacco diviene tanto più lacerante e drammatico quanto necessario.

La vicenda narrata dalla Aleramo costituisce una testimonianza notevolissima sulla condizione della donna tra fine Ottocento e primo Novecento, rivela le vessazioni, le violenze, le intimidazioni e i pregiudizi cui erano sottoposte le donne: prive di autonomia e indipendenza, erano obbligate a ruoli prefissati dai quali non potevano liberarsi se non con gravi difficoltà.

Il testo non indulge però a commiserazioni o pietismi, ma afferma e descrive molto coraggiosamente la realtà, cercando poi possibili soluzioni, che coinvolgano tanto le donne – spesso responsabili della propria sottomissione a causa dell’inerzia con la quale si lasciano vivere – quanto gli uomini, invitati ad aprire gli occhi e a rendersi conto della necessità di cambiare.

Una donna borghese qui manifesta la propria inquietudine, il proprio disagio per trovarsi relegata in ruoli limitati e rivela ambizioni, voglia di studiare e di conoscere, di impegnarsi nel sociale per modificarlo e migliorarlo. Rivela aspirazioni che finora erano state quasi solo una prerogativa maschile e si scontra con la mentalità corrente e soprattutto con un uomo ottuso e violento, che usa e abusa del suo corpo, ma non riesce ad intaccarne l’energia intellettuale.

La maternità sembra dare uno scopo e un senso a Sibilla, ma non esaurisce tutti i suoi desideri: si sente comunque incompleta ed ha il coraggio di dirlo apertamente.

La scrittura diviene il luogo privilegiato d’espressione: i primi scritti riguardano proprio i progressi del bambino, in seguito saranno articoli per una rivista, collaborazioni che le permetteranno di allargare la sua cultura e di conoscere persone affini, intrattenere contatti epistolari con letterati e studiosi.

Il marito diviene sempre più un estraneo: geloso sino all’inverosimile, esige continui tributi alla mentalità ipocrita e gretta del paese, pretende sottomissione e ubbidienza, sconfinando nel ridicolo.

Cresce l’esclusività del rapporto col bambino, cui la madre vuole trasmettere le proprie idee e aspirazioni.

“Egli mi apparteneva, perché io sola me gli davo; suo padre, sua nonna, tutti gli altri godevano lo spettacolo; ma io ero l’autrice; da me sola avrebbe dovuto riconoscere tutto ciò in avvenire” (p. 65).

Una sempre maggiore consapevolezza di sé comporta da una lato un forte senso di solitudine “alfine accettavo nella mia anima il rude impegno di camminar sola, di lottare sola” (p. 97); dall’altro è approdo a una coscienza sociale, un avvicinarsi, oltre che alle idee del femminismo, a quelle del socialismo.

“Pensare, pensare! Come avevo potuto farne senza” (p. 102)

“Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana.

E come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia?” (p. 103)

Un trasferimento a Roma diviene ulteriore occasione di apertura e di critica verso le stesse donne, spesso superficiali e mediocri sia nelle riviste che nei libri, imitazione delle prose maschili e non espressione di sé stesse.

“Ed ero più che mai persuasa che spetta alla donna di rivendicare sé stessa, ch’ella sola può rivelar l’essenza vera della propria psiche, composta, sì, d’amore e di maternità e di pietà, ma anche, anche di dignità umana!” (p. 137)

La propria vicenda diventa occasione per aprirsi a forme di solidarietà sociale, nella speranza di un cambiamento. Una nuova consapevolezza è stata acquisita e il successivo ritorno al paese non fa che accentuarla, il senso d’inadeguatezza, anche come educatrice, in quanto persona non realizzata, incompleta, esplode fino alla risoluzione finale – motivo di sicuro scandalo – che le fa scegliere l’ideale e il sogno per poter comunque offrire al figlio un’immagine degna di sé stessa, per potersi accettare e mantenere la propria autostima.

Testo sicuramente intelligente e interessante per l’apertura mentale e le idee contenute, il libro della Aleramo non è esente da una certa enfasi, che si fa sentire, talvolta pesantemente, nella narrazione, interrotta da continue interrogazioni retoriche. La fluidità del discorso ne risente.

Non manca neppure un certo autocompiacimento, un indugiare talvolta su sé stessa e sulla propria diversità, che diviene sigillo d’eccezionalità e unicità di sentire.

“Sentivo solo giganteggiare la mia solitudine, il mio isolamento morale; mentre ponevo un certo impegno nel partecipare a mio marito le impressioni che ricevevo, ad essere per lui come un libro aperto, comprendevo bene che il substrato della mia vita restava inviolabile, che, anche volendo, non avrei potuto farmi aiutare nell’opera di scandaglio che continuava in me” (p. 94).

“Avevo la rapida intuizione di significare qualcosa di raro nella storia del sentimento umano, d’essere tra i depositari d’una verità manifestantesi qua e là a dolorosi privilegiati… e, pensosa, mi chiedevo se sarei riuscita un giorno ad esprimere per la salvezza altrui una parola memorabile” (p. 171).

Le esperienze vissute acquistano luce simbolica allo sguardo retrospettivo della narratrice, ma si rivestono anche di un’enfasi piuttosto eccessiva, probabilmente frutto del gusto dell’epoca. Di qui il limite essenziale del libro, non conosciutissimo oggi, ma che invece diede grande notorietà, a suo tempo, all’autrice.

articolo apparso su lankelot.eu nell’ottobre 2006

Edizione esaminata e brevi note

SIBILLA ALERAMO, pseudonimo di Rina Faccio (Alessandria 1876 – Roma 1960), poetessa e narratrice italiana. Figlia di un imprenditore, si trasferì con la famiglia prima a Milano e poi a Civitanova Marche. Nel 1893 si sposò ed ebbe un figlio, nel 1902 abbandonò la famiglia e si trasferì a Roma, dove s’impegnò nella vita sociale e culturale. Nel 1925 sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti e nel 1945 s’iscrisse al Partito Comunista. Il suo primo libro, Una donna (1906), le dette notorietà internazionale. Ebbe relazioni amorose con molti artisti dell’epoca (Cena, Cardarelli, Papini, Boine, Campana, Quasimodo). Scrisse romanzi: Il paesaggio (1919), Amo dunque sono; (1927) Il frustino (1932); liriche: Momenti (1920); Liriche (1925); Sì alla terra (1935); e prose: Andando e stando (1920); Il mio primo amore (1924).

SIBILLA ALERAMO, “Una donna”, La Biblioteca di Repubblica, Roma 2004.

Approfondimento in rete: Italia Libri / Italia Donna / Feltrinelli / Antenati.

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