Storia di una vita che si dipana nel niente e nell’anonimato, fin quasi a far perdere le sue tracce.
Immagini di terre lontane, dagli ampi spazi sconfinati e circondate dal vasto oceano, viaggi, attraversamento di confini sino al ritorno alla propria terra, situata anch’essa all’incrocio di culture diverse. Ed poi, ancora una volta, la presenza del mare, quello familiare, ben noto, più piccolo rispetto al grande oceano straniero che è «un altro mare».
Storia di un’amicizia, di un sodalizio tra giovani intellettuali sorto in una soffitta e capace di valicare ogni confine, anche quello della morte. Incarnazione nell’uno dell’ideale teorizzato dall’altro. Un legame forte. E un sospingersi sempre più verso il niente, desiderandolo e cercandolo con ostinazione.
Fino alla naturale dissoluzione, allo smarrimento di sé e della memoria stessa. Allora forse si raggiunge pace. E felicità nell’oblio più assoluto.
Con uno stile raffinatissimo e una prosa affascinante, Magris ricostruisce in questo breve libro la storia di Enrico Mreule, giovane letterato goriziano, grecista, amico di Carlo Michelstaedter e di Nino Paternolli. I tre avevano costituito un autentico sodalizio umano e intellettuale, si ritrovavano nella soffitta di Nino a leggere e a discutere di filosofia e letteratura.
Carlo si era subito rivelato come colui che sapeva elaborare e collocare nella giusta luce le immagini:”Un’immagine che passa per la testa e cade nel nulla se non viene raccolta da qualcuno che la sa mettere al posto giusto e farla risplendere. Forse è stato anche uno degli apostoli a mostrare a Gesù, così per caso e senza capire, un giglio del campo. Lui e Nino portavano tante note in quella soffitta, le prendevano dovunque, dentro di sé, sui visi della gente, dalle foglie gialle degli ippocastani di Piazza Ginnastica, ma è Carlo che con quelle note sparse sapeva fare una nona sinfonia” (p. 14)
Si era creato un legame intenso e profondo, forte.
Nel 1910 Enrico decide di partire per la Patagonia.
Le pagine iniziali del testo di Magris ce lo mostrano in piena navigazione sull’Atlantico, di notte, mentre osserva l’oceano e ripercorre la sua vicenda:
“Ora, intorno a lui, nient’altro che il mare. […] Sono ore e ore che sta sul ponte, immobile, mai stanco di quelle cose che non cambiano.” (pp. 9-10)
Enrico si lascia avvolgere dal vento della notte e dal rumore del mare, con noncuranza si libera da pensieri e rimorsi e naviga nella grande distesa, perseguendo il niente, annullando desideri e passioni. Incarnando quell’ideale che Carlo andava teorizzando, Carlo che era rimasto a Gorizia a scrivere ed elaborare il suo pensiero, e col quale Enrico ha un rapporto empatico.
“Carlo gli aveva detto che, nell’ora in cui la nave doveva salpare, sarebbe salito sull’abbaino della soffitta per guardare, nella sera che si spegneva, in direzione di Trieste, là dove lui, Enrico, partiva, quasi i suoi occhi potessero frugare nel buio e salvare le cose dall’oscurità, lui che aveva insegnato che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere. Chissà com’era il suo viso, mentre si sporgeva dalla finestra, gli occhi neri nella notte, se non c’era un’ombra di impersuasa malinconia per la sua partenza e amaro desiderio di fermare la sua corsa, che pure aveva tanto, forse troppo ammirata.” (p. 13)
Enrico ricorda la loro vita di giovani, le ragazze: Paula, la sorella di Carlo; Fulvia, Argia, la fidanzata di Carlo, le gite in barca.
Notazioni cromatiche e paesaggistiche vivissime evocano lo sfondo in cui si muovono le figure umane.
Enrico trascorre intanto i suoi giorni sulla nave , quasi al di là dal tempo:
“I giorni si sovrappongono, si confondono e si cancellano”. (p. 25)
Enrico sbarca a Las Palmas, ha fugaci incontri amorosi, gode e dimentica subito dopo, sembra fluttuare nel nulla e nell’assoluta ricerca di anonimato, vuole realizzarsi per riduzione, smettere di desiderare, scomparire quasi.
La sua è una continua dialettica col niente, sempre sul confine della dissoluzione.
Enrico è l’incarnazione di ciò che Carlo teorizza e così le loro due figure s’alternano tra le pagine, in una sorta di corrispondenza biunivoca. L’uno sceglierà il suicidio, l’altro una vita schiva e solitaria.
Enrico, giunto in Patagonia, va a fare il gaucho: vive con lo stretto indispensabile in ampi spazi, circondato da una grande solitudine, a contatto con la natura.
La Patagonia è terra battuta dai venti, illuminata da vasti tramonti, selvaggia, terra di confine come la patria di Enrico.
I contatti umani sono pochi e scarse anche le lettere di Enrico agli amici lasciati in Italia. Rifiuta di fare il maestro in una scuola sudamericana perché “ogni sapere è rettorica, e insegnarlo ancora peggio” (p. 33).
Niente discepoli, niente legami, Enrico vive da solitario, da distaccato da tutto e da tutti “non si cura di quello che succede a Gorizia” (p. 40).
“Non conta i giorni né le settimane, calcola il tempo secondo unità più elastiche e labili, la prima folata di nevischio, lo scolorire dell’erba, il periodo dell’accoppiamento del guanaco” (p. 42).
Riceve posta da Carlo, che in lui ripone speranze, vede realizzarsi un Ideale.
“Sì, il cuore è rimasto a Gorizia, dov’è Carlo, ma si vive benissimo senza il cuore, come con una gamba o una mano di legno; basta fare un po’ d’esercizio e dopo un po’ si monta di nuovo in sella senza difficoltà, solo che è difficile spiegarlo”(p. 35).
Enrico si sente “una forma cava, l’impronta di qualcosa che gli è stata portata via” (p. 36).
Carlo si sparerà con la pistola che gli ha lasciato Enrico, lui lo verrà a sapere un anno dopo da una lettera di Nino.
Enrico si ritrova ad essere l’erede e l’incarnazione del pensiero di Carlo. Lui è l’uomo «persuaso», l’uomo libero “cui le cose dicono «tu sei» e che gode solo perché è, senza nulla chiedere né temere, né la vita né la morte, pienamente vivo sempre e in ogni istante, pure nell’ultimo” (p. 44).
A Enrico pesa quest’incarico, lui cerca solo il niente, il torpore dei giorni uguali, senza orologi, senza impegni, in una sorta di perenne anonimo fluttuare.
Nella pampa Enrico si ammala due volte di scorbuto: decide allora di tornare in patria, nel 1922 è a Gorizia, poi a Umago e soprattutto a Salvore, in Istria, al mare.
Insegnerà greco e latino in seminario e darà lezioni private, si sposerà, ma il matrimonio non avrà lunga durata per lo stile di vita eccessivamente spartano imposto da Enrico alla moglie. Niente figli, né discepoli. Alla fine solo la dedizione di un’altra donna accompagnerà Enrico nell’ultima fare della sua vita.
Nel frattempo si dipaneranno le vicende della storia: il fascismo, la seconda guerra mondiale, i partigiani, Tito, ma Enrico è sempre un isolato, estraneo a tutto, vive del solo presente. Verrà anche arrestato e picchiato dai titini e poi rilasciato.
La filosofia di Carlo continuerà ad essere presente, come se lui fosse vivo con i suoi occhi scuri e vivaci:
“La persuasione, dice Carlo, è il possesso presente della propria vita e della propria persona, la capacità di vivere pienamente l’istante, senza sacrificarlo a qualcosa che ha da venire o che si spera arrivi quanto prima, distruggendo così la vita nell’attesa che passi più presto possibile. Ma la civiltà è la storia degli uomini incapaci di vivere persuasi, che costruiscono l’enorme muraglia della rettorica, l’organizzazione sociale del sapere e dell’agire, per nascondere a se stessi la vista e la coscienza del loro vuoto” (p. 59).
Solo il presente deve esistere, “Ma forse bisogna estinguere non solo la vanità di successo bensì ogni volere, pure la volontà del bene che sorrideva in quegli occhi scuri, pure l’esigenza del valore, perché ogni esigenza incalza e brucia il presente…[…] Anzi anche il mare è troppo, perché gli rilancia la grande promessa di felicità e la grande ricerca di significato, che – come ogni ricerca- soffoca la felicità. Meglio la terra, torpida sotto il piede” (p. 60).
Enrico riceve poche e scelte visite, tra cui quella del poeta Biagio Marin; invecchia, infine scivola nell’oblio e si dissolve nel 1959.
La sua morte era stata retrodatata di ventisei anni. La sua volontà di dissoluzione e di annullamento era stata così forte da farlo scomparire anzitempo agli occhi del mondo.
Enrico Mreule rimane una figura inquietante e disperata, recuperata dalla magica prosa di Magris e riportata alla luce da quel niente tanto pervicacemente perseguito.
Articolo apparso su lankelot.eu nel luglio 2006
Edizione esaminata e brevi note
CLAUDIO MAGRIS (Trieste 1939) è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Trieste e collabora al Corriere della Sera.
Tra le sue opere: “Il mito asburgico” (1963), “Lontano da dove” (1971), “Itaca e oltre” (1982), “L’anello di Clarisse” (1984), “Illazioni su una sciabola” (1984), “Danubio” (1986), “Dietro le parole” (1988), “Stadelmann” (1988), “Microcosmi” (1997, premio Strega), “Utopia e disincanto” (1999) e “La mostra” (2001).
Claudio Magris, “Un altro mare”, Milano, Garzanti- Gli Elefanti 2003. Sarebbe stata auspicabile la presenza di un’introduzione critica al testo vista la complessità soprattutto della figura di Michelstaedter.
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