Eastwood Clint

Hereafter

Pubblicato il: 8 Gennaio 2011

In fondo la morte è stata sempre una inseparabile compagna di viaggio dei personaggi dei film di Clint Eastwood, se si vuol ripercorrere brevemente anche solo a fuggevole memoria la carriera dell’ottantenne regista statunitense. Una morte non da temere né da scansare, quella evocata più volte dal cantore crepuscolare delle contraddizioni d’America, e tanto meno è mai stata quell’innominabile ingombro che è nei fatti divenuta per la società occidentale di massa che insegue, più o meno consapevolmente, lo spettro – quello sì, ben più mortifero e pericoloso – di un benessere illusorio che si cela dietro infinite maschere. Per il vecchio Clint l’istante in cui la morte ci danza accanto, più o meno truce o beffardamente bergmaniana non ha importanza, non è altro che un momento fondamentale del nostro transito nella vita terrena; un tempo sospeso, un intervallo, una porta tra due mondi che, comunque vada, che si creda o meno in un qualche Dio o relativa dimora in qualche altrove immateriale, non è mai una finestra sul nulla eterno, un buco nero infinito la cui forza centrifuga risucchia tutte le anime. Hereafter non è altro che questo, a ben guardare, un altro film di Eastwood che indaga i territori di confine tra morte e vita, che serve soprattutto a centrare il reale discorso su quell’umano troppo umano propedeutico alla rielaborazione del lutto. Se pensiamo ad opere come Mezzanotte nel giardino del bene e del male (la pellicola più coraggiosa e sottovalutata di Eastwood e per certi versi più vicina a Hereafter, nonostante il climax fosse assai diverso), Gli spietati, Un mondo perfetto, Mystic River, Million Dollar Baby, Changeling, Gran Torino, o i meno celebrati Debito di sangue e Fino a prova contraria, ma anche retrocedendo ai tempi de Il cavaliere pallido, troviamo che il leitmotiv eastwoodiano è proprio quello di filmare i tempi e i momenti in cui vi è la demarcazione di quella linea sottile che separa la vita e la morte. Un modo per eternare i suoi personaggi di celluloide e per insinuare interrogativi sulla condizione umana nel suo aspetto più indecifrabile e controverso: quanto c’è di Dio, di destino o di conseguenze del libero arbitrio nei fatti che caratterizzano le nostre vite? Nel porsi e porre allo spettatore queste domande il cinema di Eastwood trasfigura ancora una volta i miti dell’America puritana, lo spirito di Walt Whitman e dei padri fondatori, l’epopea degli stranieri senza nome che lui stesso aveva incarnato più volte nei film di Sergio Leone e Don Siegel (cineasti cui non a caso dedicò Gli Spietati, la sua opera più crepuscolare). Hereafter è dunque una nuova declinazione delle diverse suggestioni del mondo di celluloide eastwoodiano, che ha il pregio e il coraggio di non preoccuparsi dell’intrattenimento fine a sé stesso, mantenendo il rigore riconosciuto al suo cinema ma dilatando più del solito i tempi della narrazione. Una vicenda che qualcuno potrebbe definire minimalista, girata però col respiro del grande cinema, che ha diviso il pubblico e la stessa critica. Cosa che non capitava da un bel po’ di tempo a Eastwood, uno dei pochi registi amati da ambedue le categorie. Ma perché Hereafter sembra non essere apprezzato e compreso come a mio avviso meriterebbe? Prima di rispondere a questo quesito scorriamo brevemente la trama.

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L’opera focalizza la sua attenzione su tre personaggi. George (Matt Damon) è un operaio americano con un passato da sensitivo. Riesce a percepire le parole dei morti attraverso il contatto delle mani della persona interessata – a sapere come se la passano le anime trapassate dei propri cari. Questo dono lo ha reso però un disadattato involontario, che non ha una vita sociale né una compagna accanto. Nonostante il suo lavoro fosse ben remunerato sceglie dunque di liberarsene. Marie (Cécile de France), è un’affermata giornalista televisiva francese che vede improvvisamente crollare le sue certezze esistenziali, e a ruota anche lavorative, dopo un’esperienza tra la vita e la morte da cui è uscita trasformata. Marcus è un ragazzino londinese con madre tossicodipendente che viene affidato a una famiglia dopo la morte violenta del fratello gemello. Il bambino vive un profondo senso di vuoto, e va in cerca di improbabili sensitivi che lo mettano il contatto con l’anima del fratello defunto. Le storie dei tre si incroceranno proprio a Londra, in un epilogo sospeso in cui non esistono certezze ma solo la consapevolezza che la vita non è solamente una prolungata sequenza di gesti privi di senso, e che la morte resta un mistero inconoscibile e indecifrabile per chi transita ancora su questa terra.

Un’opera di una delicatezza estrema, misurata – ed era davvero difficile, visto il tema toccato – in ogni sua minima componente (anche la colonna sonora, firmata come consuetudine dall’artista americano, sembra essere cucita addosso al film come un abito di sartoria), dilatata e riflessiva anche nell’azione, sorprendentemente rarefatta per essere un film di Eastwood. Ed è questo il motivo per cui molti amanti del suo cinema più diretto e immediato sono rimasti delusi, per l’eccessiva lentezza percepita, che a parere di chi vi parla è comunque il giusto ritmo possibile per scandire i tempi di un’opera densa di interrogativi che volutamente allontana ogni possibile forma di sensazionalismo ed effetto sorpresa. Forse si immaginava l’aldilà eastwoodiano popolato di fantasmi aggressivi e manifesti, di ectoplasmi vaganti tra questo e un altro mondo, o si auspicava una spiegazione dettagliata dell’oltre in cui il Nostro ci accompagnasse passo per passo fino all’incontro con qualche improbabile creatore o entità metafisica. Al contrario Hereafter accenna soltanto: bagliori, sprazzi di luce, immagini sfocate e sfuggenti, assenza totale di suoni e senso dello spazio. Un territorio ovattato e indecifrabile, che si manifesta tre quattro volte e per durate molto brevi nell’arco del film. Nessun poltergeist o armadio che si sposta, né sedute spiritiche o voci deformate dall’eco dell’altrove, solo una solida disposizione a cercare di capire non già i sommovimenti di mondi intangibili ma i ben più umani e conseguenti sentimenti di estraniazione, sofferenza, nostalgia, dolcezza e ricordo quando si accosta l’anima di un caro defunto e gli si vorrebbero fare un milione di domande. Domande che cercano soprattutto di rassicurare i vivi, le loro coscienze, che seguono il filo di un impercettibile cordone animico e spirituale che lega per un istante il mondo dei vivi al mondo dei morti. Quello che interessa ad Eastwood, come evidenza e logica riscontrabile qui come nella sua folta filmografia, è il riflesso della morte su chi resta, discorso principe di un cinema crepuscolare fortemente legato a vicende e controversie terrene, ma con uno sguardo lontano dal materialismo e dal laicismo di professione. Chiamiamolo spiritualismo laico, laicismo illuminato o semplicemente atteggiamento ragionevole e più che comprensibile per un artista ottantenne a cui auguriamo certamente lunga vita, non solo artistica evidentemente, ma che è sicuramente oltre la soglia di età in cui naturalmente si infoltiscono gli interrogativi sul tema.

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Il notevole pregio di Hereafter sta proprio in questa sua capacità di non banalizzare tematiche assai difficili da restituire in un’opera che rifugge l’espediente del soprannaturale in forma di thriller (il pur bellissimo Il Sesto Senso di M. Night Shyamalan, ad esempio, non può fare a meno della trama gialla e dell’effetto sorpresa per dare un senso compiuto al film) per immaginare un cinema didattico e dal taglio esistenzialista, pur non rinunciando all’impianto classico della migliore tradizione hollywoodiana. Un cinema per riflettere, interrogare e probabilmente interrogarsi. Capirete bene lo sconcerto dei più, anche di alcuni critici. Il tocco eastwoodiano è comunque riconoscibile anche agli occhi dell’appassionato più perplesso, e ci sono alcune sequenze girate con classe purissima, come quella, davvero maestosa, in cui viene filmato lo tsunami, o quella in cui Matt Damon svela a Bryce Dallas Howard cosa ha da dirle lo spirito di suo padre. Proprio Matt Damon, solitamente un po’ ingessato a livello espressivo, sotto la guida del grande Clint dà il meglio di sé e regala una performance sofferta e misurata, sicuramente più convincente di quella offerta nel recente e sempre eastwoodiano Invictus. Efficace il resto del cast, diretto con la solita maestria dal regista statunitense.

Hereafter, letteralmente il “qui dopo”, è un film che solleva il velo e guarda in faccia un tema,  quello della morte, il quale anche semanticamente ha subito un sostanziale impoverimento di significato, mascherato com’ è sotto termini e concetti eufemistici e a volte anche risibili. Perdita, scomparsa, dipartita, passare a miglior vita (che è l’immagine più fastidiosa, a ben guardare) sono parole e immagini che possono servire più che altro a un giornalista in cerca di sinonimi ma che certo, nell’idea generale dei media occidentali, sono state pensate con l’obiettivo sempre più evidente di scacciare dalla mente un concetto che non favorirebbe l’idea di benessere diffuso che si vuol restituire. Svuotata dei suoi antichi e importanti significati, la morte sarebbe solo uno spauracchio da evitare e da celare il più possibile sotto consolanti apparenze. Clint Eastwood se ne frega, come al solito, del politically correct e va oltre queste immotivate paure del mondo contemporaneo elaborando nuovamente la sua personale visione spirituale e considerando il “qui dopo” come una possibile e naturale appendice, o per qualcuno di noi un frammento di eternità che sopraggiunge improvviso, della vita stessa. E in barba ad atei di mestiere, ideologi del laicismo tout court, spiritualisti d’accatto e dogmatici di qualsiasi confessione religiosa ci regala un’opera in cui il dubbio e la possibilità sono le uniche salutari certezze. Dimostrando ancora una volta, alla veneranda età che si ritrova, che il suo sguardo cinematografico vola oltre le mode i pregiudizi e le ottusità consolidate, partorendo una pellicola che si inserisce a giusto diritto tra i must imperdibili di questo grande artista che sembra avere ancora tantissime cose da raccontare al suo pubblico. Ancora una volta, tanto di cappello.

Federico Magi, gennaio 2011.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Peter Morgan. Direttore della fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox, Gary Roach. Scenografia: James J.Murakami. Costumi: Deborah Hopper. Interpreti principali: Matt Damon, Cécile de France, Frankie McLaren, George McLaren, Bryce Dallas Howard, Thierry Neuvic, Jay Mohr, Richard Kind, Lindsey Marshal, Marthe Keller. Produzione: Malpaso Productions, The Kennedy/Marshall Company, Road Rebel. Musica originale: Clint Eastwood. Origine: USA, 2010. Durata: 129 minuti.