Black Jack

Non c’è scampo (“You Can’t Win”)

Pubblicato il: 20 Gennaio 2008

Ieri sera stavo leggendo a voce alta, alla mia ragazza, un paio di capitoli di questo libro. Lei mi fa, Buffo. Sì. Certo, ma non si lega mai a nessuno? Ecco. Questo libro, romanzo, è buffo. Questo libro, romanzo, racconta la vita di un ladro ed oppiomane. E la racconta da un punto di vista privilegiato, visto che il protagonista delle vicende è anche l’autore. Di lui si sa poco o niente, nato nella seconda metà dell’800, morì negli anni ’30 del ‘900. Forse suicida, è scritto sulla bandella del retro copertina. Forse. La cosa più divertente di questo libro è il modo in cui racconta le cose, e sono cose tremendamente serie, come furti nelle case, spari, droga, riciclaggio, morti e via dicendo. Mi ha un po’ ricordato Passeggiata Selvaggia di Algren. Non per lo stile. Ma perché anche lì c’è un ragazzino che prende e se ne va, per treni, da una parte all’altra degli States. Lì il ragazzino viveva una condizione più disagiata, da un punto di vista familiare, rispetto a quella di Blacky. Comunque.
A pagina 19 c’è tutto Jack Black: “In quei venticinque anni vissi tutte queste cose, e ora ho intenzione di scriverne.
E ho intenzione di farlo così come le vissi: con un sorriso.”
Con un sorriso. E questo sorriso accompagna tutta la narrazione, non c’è un momento, per quanto triste, malinconico, duro, a cui il narratore ci sottopone senza che si senta questo sorriso. Mi sembra una grande abilità. C’è una serenità in questa scrittura, a cui non sai neppure se credere o meno. Ci sono momenti in cui ho pensato, uhm, è vero? è falso? è una finzione? E soprattutto, questo non è tutto. Jack Black non narra, tutto. Il suo è un sorriso di distacco. C’è l’impressione che il suo intimo sia da un’altra parte. Una persona che non gli va, in fondo, di mostrarsi. Narra la sua vita, sì, ma con uno scopo ben preciso. Non è cosa che fa con leggerezza. Il suo sorriso, che c’è, non è sempre divertito e divertente. Tu lo senti, che leggi, e ti aiuta a sdrammatizzare certe situazioni, che un’altra penna avrebbe reso angoscianti, opprimenti. Non è scrittore indulgente nei propri confronti, non è che vuol far vedere quanto è stato forte e ganzo ad avere certe esperienze, racconta di sé perché sa che è stato sbagliato. Sa di aver sbagliato, e ora che si è corretto, che è stato aiutato, e che ha un lavoro da bibliotecario, vuole rendere, con questa narrazione, qualcosa a chi l’ha aiutato ad uscire, ed ai giovani. I giovani. C’è sempre uno sguardo per loro, per chi verrà. Black sa quanto il lato oscuro sia forte, ed anche divertente, per un ragazzino. Lui che si era entusiasmato per Jesse James. Ma. Non scorda mai a cosa l’ha portato. Perché? Dov’è, ora, Jack Black?
“Non ho soldi, né moglie, né auto. Non ho un cane. Non ho nemmeno una radio né un ficus.” (pag. 373)
Ma “…ho un lavoro, ho due abiti, ho due stanze arredate in un appartamento. Ho tutti gli amici a cui posso essere leale.” (pag. 372)
“…gli amici a cui posso essere leale.”
La lealtà. Per questa, ad esempio, smette con l’oppio. Una persona lo aiuta, e mettendolo su un treno gli dice “Arrivederci, Blacky, buona fortuna. E farai meglio a stare lontano da quella droga o farà di te un miserabile.” (pag. 351). La lotta contro la dipendenza. Interessante, per come la descrive. Il suo diminuire in modo costante la quantità d’assunzione. Tutto per quelle parole. Certo, lui voleva smettere, ma quelle parole contavano molto. Una dipendenza mentale dalla droga, per lui. E poi. La lealtà nei confronti dei compagni di strada, di chi gli ha insegnato a entrare in un appartamento a rubare, di chi gli ha insegnato a scassinare la cassaforte, di chi gli ha mostrato come comportarsi di fronte alla legge, alla giustizia. Lealtà anche nei confronti di chi veniva derubato, sì. Se così si può dire, ecco. Rispetto. Prendere ciò per cui si è venuti, e basta. Se non si può, ci sono moltissime altre case. Certo, perdere giorni per trovare il posto giusto, ore per poter entrare e cercare all’interno della casa, ed uscire a mani vuote non è divertente, è stressante. Le pagine del suo apprendistato sono divertenti, la descrizione dei colpi andati a vuoto, il commento su di un articolo di giornale che lo raccontava. Con il sorriso. Sembra di essere davvero con un amico che ti si mette lì a raccontarti vari episodi, e li commenta come a dire “Vorrei vedere te, al mio posto!”. Non si scorda mai del lettore, Black. Non si scorda che il lettore, forse, non è uno dentro certa vita, e quindi non sa come vanno le cose. Si prende la briga di spiegargliela, ecco tutto. Ci mancherebbe. Lui è disponibile, ci è passato.
Un’attenzione grande nei confronti degli altri, sempre. Un codice, si potrebbe definire, per cui vale la pena qualunque cosa.
Questo libro è una miniera, una miniera di informazioni su un mondo che ora è scomparso, il mondo dei treni, degli yegg, dei raduni in mezzo ai boschi, delle carceri americane (ovvero, fagioli) e delle carceri canadesi (ovvero, piselli). Questo libro cerca di farti vedere le cose in modo diverso. Essere ladro non è diverso da essere ragioniere. Un lavoro. Fatto o mancato un colpo, si pensa al successivo. Se si è raggranellato denaro sufficiente a smettere per un po’, non si sta con le mani in mano. Si gira, si osservano possibili luoghi per i prossimi colpi. Si fanno piani. Si cerca di non lasciare niente al caso. La violenza non è mai gratuita, e di chi è violento non c’è molto rispetto. Le pistole si portano per intimidire in caso di necessità, non per usarle. Un modo di vedere il crimine che te lo fa sembrare quasi non un crimine. Eppure lo è. Lo era. Ma è interessante, perché Black non smette mai di dire che quello che ha fatto era sbagliato. Lui lo accetta. Non fa la vittima, perché non lo è. Lo sguardo sulla propria vita è di accettazione. Di, mi permetto, responsabilità. Scrive, adesso, perché pensa che le cose possano cambiare. Perché i regolamenti giudiziari mirino al reinserimento dei detenuti, e non alla loro sopraffazione. Perché si abitui al lavoro, non al crimine. Dice di non avere “perle di saggezza che possano aiutare la gente ad aiutare i prigionieri, e aiutare i prigionieri ad aiutare se stessi….Non lo so…” (pag.370). Vero. Intanto ha scritto questo libro. La sua storia. Con molto riserbo. Non si lega mai a nessuno? Mah, forse non lo vuol far troppo sapere. Ci sono i suoi amici delinquenti, e i suoi amici fuori di prigione, ci sono donne, poche. C’è l’oppio e c’è il furto. C’è la lealtà. C’è la parola data. Ci sono rapporti espressi tramite fatti, e non parole. Per questo, forse, certi legami appaiono meno forti di quanto siano, e rimane sempre l’impressione che tanto altro non sia detto. Ma anche narrare è una scelta. Chi racconta, sceglie cosa raccontare. Black ha scelto.
“Adesso sono bibliotecario al San Francisco Call.
Ne ho l’aria?” (pag. 15)

a g.f.

(comparso in Lankelot il 20 gennaio 2008) ab

Edizione esaminata e brevi note

Jack Black (fine Ottocento – circa 1930), scrittore americano, paladino dei vagabondi.

Jack Black, “Non c’è scampo”, Alet, Padova 2006.
Traduzione di Federica Angelini. Prefazione di William S. Burroughs. Risvolto di Massimo Carlotto.

Prima edizione: “You Can’t Win”, USA, 1926.

Approfondimento in rete: Ralphmag / Wiki