Hannah e le sue sorelle, datato 1986, è il film che, ad oggi, ha incassato più di ogni altro all’interno della oramai sterminata filmografia alleniana. Partorita subito dopo due lungometraggi assai differenti, Broadway Danny Rose (1984) e La rosa purpurea del Cairo (1986), è un’opera corale che consente al regista newyorkese di misurarsi sugli amati registri “bergmaniani”, pur sposati con tocco più lieve e con meno simbolismi rispetto al passato. Hannah e le sue sorelle non è, difatti, un film bergmaniano a tutto tondo come lo era stato Interiors e come lo sarà il successivo Settembre, ma ci dà nuovamente la misura di quanto sia stata forte l’influenza del maestro svedese nel cinema di Woody Allen. Proprio con Hannah e le sue sorelle, con una sceneggiatura che vinse l’Oscar e che un movimento d’artisti e intellettuali propose addirittura per il Pulitzer (sarebbe stata la prima e unica volta per una sceneggiatura cinematografica), Allen completa, a mio personale parere, l’apprendistato bergmaniano, avendo così la possibilità di costruire il suo cinema, i suoi dialoghi frizzanti e mai banali, su un impianto più solido rispetto alle pellicole precedenti. Il risultato è uno splendido affresco corale, un’indagine familiare che incontra i toni della commedia in modo davvero esilarante ma sempre sottilmente agrodolce.
Hannah è Mia Farrow, moglie-musa del tempo, figlia maggiore di genitori che lavorano nel mondo dello spettacolo, sposa devota, madre amorevole e attrice di successo. Lee e Holly (Barbara Hershey e Dianne Wiest), le sue due sorelle, hanno al contrario una vita precaria: Lee, la più giovane, convive con Frederick (Max von Sydow), un anziano e scontroso pittore, Holly, invece, è una ex tossicodipendente insoddisfatta dalla vita, nonché preda di velleità letterarie. E poi ci sono Mickey (Woody Allen) ed Elliot, il primo creatore di script televisivi ed ex marito di Hannah, irrimediabilmente ipocondriaco fino a toccare la paranoia, il secondo, suo attuale marito e affermato consulente fiscale. Su questa base iniziale Allen opera il consueto rimescolamento delle coppie, – il must imperdibile, in questo senso, è Manhattan (1979), uno dei suoi tre capolavori – degli affetti, delle vite, delle situazioni: Elliot si innamora di Lee la quale, dopo un’iniziale intenzione di presa di distanza, gli si concede. Ma durerà poco. Mickey, nonostante sia più che mai preda dei suoi malanni immaginari – è convinto di avere un tumore al cervello che gli porta anche una crisi religiosa: da ebreo subisce il fascino del cattolicesimo – si incontra sentimentalmente niente meno che con Holly, la sorella della sua ex moglie. Il mondo perfetto di Hannah sembra di colpo crollare, le sue certezze venir meno, così portandola ad una riflessione esistenziale attraverso la quale interrogarsi sulla vita fino ad allora vissuta, sui suoi legami intimi e familiari, sulla necessità di trovare una via d’emancipazione da quel contesto che, nonostante tutto, aveva sempre vissuto con amore. Il finale, stavolta, è meno aperto del solito e per ciò stesso maggiormente consolatorio. Ma non c’è miele né artifici, tutto scorre e va da sé con incantevole naturalezza, perché il regista newyorchese trova la perfetta misura degli elementi come poche altre volte gli era riuscito.
Come avrete intuito, Hannah e le sue sorelle è uno dei migliori prodotti della cinematografia alleniana, non a caso uno dei più premiati: 3 Oscar (sceneggiatura, Micheal Caine e Dianne Wiest), David di Donatello e altro ancora. Qui Allen trova l’equilibrio che altrove gli era sovente sfuggito, dosando alla perfezione i tempi comici e della riflessione, costruendo una sceneggiatura gioiello che si avvale di dialoghi notevolmente sopra la media per un prodotto di celluloide. Ma il regista newyorchese aveva dato più volte prova di saperci fare, direi proprio di eccellere nella costruzione dei dialoghi (l’elenco era già lungo nel 1986: ancora una volta Manhattan, ma anche Io e Annie, su tutti), tanto che, nella fattispecie, sono i dettagli a far la differenza. Sempre che di dettagli si possa parlare: attori magnifici, tutti in parte e diretti con padronanza assoluta da Allen (c’è un alterco tra il grande Max von Sidow e la Hershey del quale si dice strappò applausi a tutto il cast già durante la lavorazione), il quale si ritaglia un ruolo che gli calza a pennello, un ipocondriaco all’ultimo stadio capace di far cilecca in un esilarante tentativo di suicidio. Tic, manie, idiosincrasie, ecco la “materia” principale filmata dal regista newyorchese, il quale ha sempre trasferito le sue personali ansie-ossessioni nei personaggi da lui stesso interpretati e in innumerevoli alter ego. Qui, forse per la prima volta interamente, trova la giusta distanza tra sé e i personaggi di contorno, dimostrando piena maturità tecnica, artistica ed espressiva, limando quel pur geniale egocentrismo comunque amato dai suoi estimatori. L’eccellenza dei dialoghi rafforza l’ambizione intellettuale del regista il quale, opera dopo opera, dimostrò di voler volare alto e di cercare a ogni piè sospinto assonanze e ispirazioni attraverso il rimando all’alta letteratura, la musica classica, il grande cinema. Come in questo caso, nel quale comicità ed intelletto si mescolano dando origine ad una notevole mistura che trova una riuscitissima amalgama.
La riflessione esistenziale alleniana sulla precarietà degli affetti, dei rapporti, sulle piccole e grandi bugie necessarie alla sopravvivenza familiare si fa dunque davvero compiuta, considerando la cornice corale, e prelude alla più grande introspezione-riflessione tradotta in immagini che Allen abbia partorito nella sua lunga e gloriosa carriera. Sempre un cinema corale: Crimini e misfatti (1989), il suo ultimo, indiscusso capolavoro.
Elevata anche la cifra tecnica, che vede all’ispirata fotografia il grande Carlo Di Palma, sapientemente incline a valorizzare un regista che si concentra sui volti, facendo largo uso dei primi piani per imprigionare le emozioni che gli offre un cast in stato di grazia. Intensa e indovinata anche la colonna sonora che, ancora una volta in chiave evidentemente bergmaniana (anche nella scelta delle musiche: vedere credits), sottolinea gli snodi essenziali e i cambi di scena segnalati visivamente attraverso l’uso del titolo – in realtà vere e proprie frasi o concetti – d’ingresso. Hannah e le sue sorelle, pertanto, è un’opera importante nell’evoluzione del percorso artistico alleniano, una vicenda scoppiettante in cui lo humour serve a sdrammatizzare e demistificare ciò che spesso ci appare come una situazione senza via di sbocco, di sfogo, eppure irrinunciabile: gli affetti, la famiglia, lì dove è sempre labile il confine tra le aspirazioni personali, le paure esistenziali e la necessaria ricerca d’equilibrio con l’altro. Allen, in fondo, attraverso le sue opere, pur attingendo ogni volta da una vena autobiografica, che fosse o meno sulla ribalta, che fosse dramma o fosse commedia, sempre questo ha voluto rappresentare. Riuscendovi sovente, come nel caso in questione, grazie all’invidiabile resa della scrittura e all’indubbia capacità di dirigere e valorizzare attori noti e meno noti. Hannah e le sue sorelle è un’opera da recuperare, una tappa fondamentale per chiunque voglia piacevolmente addentrarsi nella sua cinematografia.
Federico Magi, gennaio 2008.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Woody Allen. Soggetto e sceneggiatura: Woody Allen. Direttore della fotografia: Carlo Di Palma. Costumi: Jeffrey Kurland. Scenografia: Stuart Wurtzel. Montaggio: Susan E. Morse. Interpreti principali: Woody Allen, Mia Farrow, Michael Caine, Dianne Wiest, Barbara Hershey, Max von Sydow, Carrie Fisher, Maureen O’Sullivan, Lloyd Nolan, Daniel Stern, Bobby Short, Lewis Black, Julia Louis-Dreyfus, J.T.Walsh, Julie Kavner, John Turturro, Richard Jenkins, Ken Costigan. Musica originale: Johann Sebastian Bach, Michael Bramon, James V.Monaco, Giacomo Puccini, Jule Styne. Produzione: Jack Rollins, Robert Greenhut, Charles H. Hoffe per la Orion Pictures. Titolo originale: “Hannah and Her Sisters”. Origine: Usa, 1986. Durata: 103 minuti.
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