Henson Jim

Labyrinth

Pubblicato il: 10 Gennaio 2007

C’era una volta il cinema degli Ottanta. Periodo – si dice – artisticamente grigio, minato dalle disillusioni fine Settanta e dalla voglia di spensieratezza e disimpegno a tutti i costi. In Italia, all’inizio degli Ottanta, spopolavano il campione d’incassi Celentano (Il bisbetico domato, Innamorato pazzo, ambedue le commedie di Castellano e Pipolo), la commedia sexy all’italiana e quella paradossi, battutacce e nonsense (che ha forse il suo “picco creativo” con Vieni avanti cretino di Luciano Salce e Fracchia la belva umana di Neri Parenti), resisteva Fantozzi e si versava qualche lacrimuccia per il furbo Kramer contro Kramer. Eppure, in questo periodo tanto artisticamente sottovalutato si è riusciti a dar vita a storie magiche per il grande schermo, racconti di celluloide che ci hanno fatto sognare e insegnato a guardare oltre la consuetudine, oltre la superficie di disimpegno e disincanto che pur in giro doveva esserci. La fine dei Settanta ci porta le prime due puntate della saga Star Wars (ora episodi 5 e 6, ma allora non lo sapevamo), e già ci si può ben accorgere che l’incanto è possibile. Gli Ottanta ci portano la sua conclusione, e non solo. Ci sono E.T., I Goonies e Indiana Jones, frammenti di uno Spielberg cantore fiabesco ispirato. Si adatta la splendida fiaba di Ende (La storia infinita), e i bimbi di mezzo mondo cominciano a sognare, a volare su Falcor con il bimbo Bastian e il guerriero Atreju, a capire che Fantasia può sconfiggere il Nulla. Su questa stessa lunghezza d’onda, ma senza malinconia e con forti dosi di humour, troviamo anche Labyrinth, opera sognata e sognante, che consente a Jim Henson, padre del Muppet show, di adattare le sue note suggestioni pupazzesche ad una storia che ci catapulta in una dimensione lontanissima dal reale, nella quale un’adolescente particolarmente ricettiva al fantastico e all’immaginifico si trova a doversi divincolare in un complicatissimo labirinto.

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Sara (Jennifer Connelly) ha 15 anni, un cane di nome Merlino e un fratellino nella culla a cui far da balia serale ogni volta che il padre e la matrigna decidono di uscire. Lei mal sopporta i lamenti del bimbo, fratellino-fratellastro, tanto da invocare, attraverso una improbabile formula magica, il re dei folletti affinchè se lo porti via con sé. Tanto è viva e forte l’immaginazione, tanto è vivo e forte il desiderio, tanto la folle fantasia impossibile è possente e presente nella sua invocazione che il bimbo viene rapito davvero dal re dei folletti. Ecco che appare Jareth (David Bowie), sovrano dei folletti, pronto ad esaudire il desiderio della giovane e a ringraziare per il dono inatteso. Sara, pur per un frangente incredula, capisce il pasticcio in cui si è messa, pregando lo strano signore venuto da un inconoscibile altrove di non tener in considerazione le parole pronunciate in un impeto d’ira e sconforto. Niente da fare, il dado è tratto, Jareth è pronto a tornarsene al castello insieme al pargoletto, proprio al centro di un magico labirinto del quale è impossibile venire a capo. Ed ecco l’altrove, non più inconoscibile perché Sara decide di valicare il confine tra i due mondi, passando proprio dalla finestra della sua camera. Comincia la ricerca, e Sara ha solo tredici ore prima che il fratellino sia tramutato per sempre in folletto: il labirinto sembra tutto fuorché un labirinto, al contrario appare come un percorso infinito in linea retta. Eppure non tutto è come sembra, la prima lezione che Sara impara lungo il tragitto è che le cose vanno viste da una prospettiva altra rispetto al mondo da cui viene, che nel labirinto le porte della percezione mentale sono più vere e affidabili di ciò che l’occhio distingue come immagine. Lungo il tragitto, proprio come Alice nel paese delle meraviglie (o la giovane Dorothy ne Il mago di Oz), incontra buffi compagni di viaggio, tenuti in scacco da Jareth e pronti ad aiutarla nel momento del bisogno. Sara riesce a conquistare la fiducia di tutti, anche di chi, come il nano Gogol, è abituato a pensare solo a se stesso, pavidamente accettando ogni prescrizione del re dei Goblin. Tra alterne peripezie, nonostante il sortilegio lanciatole contro da Jareth, supera il labirinto e arriva nel castello: il sovrano, incredulo – mai avrebbe immaginato che la giovane ce arrivasse fin lì -, l’attende. Che armi ha Sara per sconfiggere il signore dei folletti e riportare a casa il fratellino?

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Magia, incanto, divertimento, invito al sogno, all’evasione più che mai fanciullesca. Labyrinth è una fiaba che, al contrario del Signore degli anelli o de La Storia infinita, non evoca lotta d’assoluti. La componente bene versus male è ridotta ai minimi termini per dar sfogo all’immaginazione più pura e limpida, sganciata da grandi messaggi etici ma fortemente connotata da caratterizzazioni estetiche. La scelta dei folletti, del labirinto, della magia illusionista che confonde realtà e sogno ci immergono nella più pura e primordiale natura fanciullesca dello spirito umano. Gli effetti speciali, all’avanguardia per l’epoca, sono totalmente al servizio della storia, mai fine a se stessi, sempre in grado di generare meraviglia nello spettatore fanciullo, oramai immedesimato in Sara. Spettatore fanciullo, evidentemente, in quanto questa fiaba è rivolta esclusivamente ai bimbi – il che non vuol dire che non se ne può godere da adulti, ci mancherebbe altro -, rapiti dall’enigmatico volto di Bowie e dalla bellezza angelica di Jennifer Connelly, ineguagliabile musa del sogno adolescenziale dei trentenni di oggi, allora bambini, quasi adolescenti.

La scelta di Bowie e Connelly è davvero azzeccata, per i motivi or ora esposti, la verve animata dei pupazzi di Henson è godibile, anche se i bimbi di oggi, abituati a ben altre animazioni in digitale, non immagino quanto possano apprezzare. Bowie, oltre alla magnetica interpretazione, regala alla pellicola cinque canzoni, allegramente interpretate insieme ai pupazzi, cosi contribuendo alla costruzione di un personaggio che è rimasto nell’immaginario di noi ragazzini d’allora, ora cresciuti e comunque in tempo per raccontarvi l’emozione conservata, sempre riaggiornata e mai troppo edulcorata dalle visioni delle fiabe del cinema d’oggi. Una nota conclusiva è d’obbligo per la riuscita sceneggiatura di Terry Jones, fondatore dei Monty Python, non a caso mai priva di humour e di paradossi che infondono leggerezza alla fiaba cosi da evitare di scadere nello scontato, nel banale, nell’eccessivamente zuccheroso.

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A differenza de La storia infinita – prima grande produzione fantasy europea, che aveva comunque l’indubbio vantaggio di poggiarsi sul capolavoro letterario di Ende, pur sviluppato nel solo nucleo centrale e nella suggestione generale contenuta nel libro – Labyrinth rimane, come detto, confinato in un universo fanciullesco che, per quanto suggestivo e ricco d’incanto e meraviglia, poco può attecchire oltre l’adolescenza. Ma questo non è necessariamente un difetto, tanto che il film in questione è ricordato e omaggiato da noi trentenni o giù di li proprio per aver caratterizzato quella fase importante della nostra esistenza, quell’infanzia-adolescenza che si nutrì voracemente delle fiabe di celluloide sopra citate. Labyrinth, La storia infinita, I Goonies, E.T., Indiana Jones, Piramide di paura e compagnia sognata, avventurosa e sognante; chi più chi meno, chi con poesia, chi proponendo altri mondi, chi affascinando col mistero, chi con la dolce malinconia, tutti a ricordarci – come viene insegnato a Sara all’ingresso del labirinto – che la realtà non sempre è cosi come l’occhio la percepisce, che le porte della percezione sono ovunque quando è viva la fantasia-immaginazione generatrice. Basta cercarle, entrare, inoltrarsi in magici labirinti della memoria e cominciare a sognare.

Federico Magi, gennaio 2007.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Jim Henson. Soggetto: Dennis Lee, Jim Henson. Sceneggiatura: Terry Jones. Direttore della fotografia: Alex Thomson. Scenografia: Elliot Scott. Montaggio: John Grover. Costumi: Brian Fround, Ellis Flyte. Interpreti principali: David Bowie, Jennife Connelly, Toby Froud, Shelley Thompson, Christopher Malcom, Natalie Finland. Musica originale: David Bowie, Trevor Jones. Origine: Gran Bretagna / Usa, 1986. Durata: 101 minuti.