Sempre più incline a percorrere le vie del melodramma, il cinema di Pedro Almodovar si conferma coerente con i suoi paradigmi estetico-narrativi e mai del tutto identico a sé stesso, nonostante gli amanti della prima ora – coloro che erano affezionati alle potenti iniezioni di grottesco – rimproverino al regista madrileno di essersi lasciato andare non dico al puro mainstream, ma quanto meno a un’arte che strizza l’occhio a più vaste fasce di pubblico. Non è un male in sé, soprattutto se la qualità resta alta, pur nell’attenuarsi dei colori e delle forme, come accade anche in quest’ultimo, intenso lungometraggio. Gli abbracci spezzati è un’opera che ha generato critiche di segno opposto e perplessità nel pubblico, al pari e forse anche più de La mala educacion e Volver, ma ha l’incontestabile pregio di essere una vera e propria dichiarazione d’amore per la settima arte. Un amore, quello di Almodovar per il cinema, che risulta evidente anche in altri preziosi tasselli della sua ormai ricca filmografia e che ne Gli abbracci spezzati diventa addirittura il cuore pulsante della vicenda narrata – testo e sottotesto, cinema nel cinema, realtà e finzione mai tanto interdipendenti: una dolorosa storia d’amore fatta di immagini, raccontata per immagini, spezzata e ricomposta attraverso le immagini. Siamo all’interno della storia: i fotogrammi, le inquadrature, il montaggio, la scrittura e l’occhio del regista sono i luoghi fisici e al contempo immaginifici del sentimento, del dolore e della catarsi che sopraggiunge con l’epilogo. Almodovar ci testimonia tutto questo parlandoci di vite infrante dalla vendetta e alimentate dal fuoco del desiderio, e lo fa con la consueta classe e maggiore distanza emotiva rispetto al suo cinema precedente, articolando una sceneggiatura apparentemente contorta che alterna presente e passato, finzione scenica e realtà. Raccontiamo brevemente gli snodi essenziali della trama.
2008. Mateo Blanco è un ex regista che, divenuto cieco, ha scelto di scrivere romanzi e sceneggiature firmandosi con lo pseudonimo Harry Caine. È aiutato in questo dalla ex agente e produttrice Judit, insieme al figlio Diego, che partecipa direttamente alle stesure dei testi. Un giorno la ritirata vita dell’uomo viene scossa dalla richiesta di partecipare allo script di un aspirante regista che si fa chiamare Ray-X. La sceneggiatura proposta da Ray-X è molto forte, e rievoca alla mente del regista un passato fatto di vibranti passioni e di dolore. Ray-X non è altro che il figlio di Ernest Martel, potente uomo d’affari da poco deceduto che aveva incrociato, qualche anno prima, il destino dell’artista. I ricordi volano alla storia d’amore tra l’ex regista e la sua musa Lena, consumatasi quindici anni prima e conclusasi tragicamente. Ora Harry volge lo sguardo a ritroso per riuscire a ritrovare Mateo, e con lui i fotogrammi che restituiscano il senso a un dolore fitto ancora di troppi interrogativi.
Un’opera densa e coinvolgente, che conferma Almodovar grande narratore nonostante tutte le critiche – davvero immotivate, nella fattispecie – che gli sono piovute addosso proprio riguardo alla sceneggiatura. Alternando presente e passato, sulla linea de La mala educacion, ma soprattutto mescolando finzione a finzione, immaginando certo un piano reale ma giocando sostanzialmente con il cinema, Almodovar dimostra di saper controllare e assemblare gli elementi anche con un certo rigore. Altro che matriosche e scatole cinesi, come ho letto da più parti, ne Gli abbracci spezzati le aperture e le cesure tematiche hanno più che mai senso e non confondono lo spettatore – Almodovar si concede solo una leggerezza evitabile, nei pressi dell’epilogo, sul legame tra l’ex regista e Diego. Tutto procede col giusto ritmo, con i giusti tempi cinematografici, tanto che – rispetto ad alcune opere precedenti – nessuna citazione o auto citazione è veramente gratuita. E sì che di citazioni e auto citazioni ce ne sono parecchie in questo film, che come ripeto è un tributo alla settima arte dalla prima all’ultima sequenza: già l’idea di meta cinema è una dichiarazione di intenti, ma oltre a ciò Almodovar omaggia apertamente Bunuel e Rossellini (Viaggio in Italia, la cui sequenza proposta ispira anche il titolo del film), Audrey Hepburn e Marilyn Monroe (attraverso le metamorfosi sceniche di Penelope Cruz), evocando – tra gli amanti del suo cinema e non soltanto – il ricordo di sé per ricucire le distanze tra cinema presente e cinema passato: Donne sull’orlo di una crisi di nervi, Kika, Tutto su mia madre, La legge del desiderio, La mala educacion. È forse questo il vero gioco di scatole cinesi a cui ci sottopone il regista iberico, capire dove il cinema omaggiato si nasconde. Niente che riguardi gli intrecci dello script.
Quello che sorprende in positivo, rispetto alle opere precedenti, è proprio la misura, la visibile ricerca di distanza dai personaggi che trova Almodovar, supportata anche dalle scelte di regia: la macchina da presa si muove con la consueta disinvoltura ma è decisamente più attenta nel non sovraccaricare le sequenze e nel cercare la distanza visiva e di conseguenza emotiva dal dolore. Perfino la musica del fido Iglesias va in questa direzione. La fotografia di Rodrigo Prieto, soprattutto nelle suggestive scene girate all’isola di Lanzarote, ci dimostra quanto questa ricerca di equilibrio estetico sia stata felice e produttiva, senza per questo rinunciare a filmare le passioni che animano la storia. È anche un Almodovar meno voyeuristico, che ci restituisce la bellezza di Penelope Cruz attraverso le sue conturbanti forme con classe e stile, indugiando solo una volta – e a giusta ragione – sul bellissimo seno dell’attrice spagnola. La Cruz oltre al corpo ci mette anche la consumata bravura, esaltata da un concerto d’attori che si muove con armonia sulla ribalta. Tutti in parte, nessuno sfigura, come consuetudine nelle opere del cineasta spagnolo.
Il regista madrileno si muove ancora una volta tra i generi, mescolando dramma, noir e thriller (il film ha addirittura un vago sapore hitchcockiano, in alcune sequenze), tralasciando quasi completamente la commedia e rinunciando totalmente al grottesco. Molta carne al fuoco e molti i temi che si innestano nel gioco meta-filmico di Almodovar, primo tra tutti il discorso sul fato – la cecità del costruttore di immagini è un paradosso che fortifica la potenza e la capacità salvifica dell’arte: un destino che invita ogni volta a risintonizzarsi su ciò che è stato per spiegare ciò che è e progettare ciò che sarà.
E anche il titolo d’ispirazione rosselliniana, già di per sé evocatore di pathos e dolore, compartecipa a render chiara una vicenda che Almodovar fa transitare dal presente al passato – smussando più volte il piano temporale per ritornare ogni volta al presente – per dare nuovo senso a un amore perduto solo fisicamente; un amore tragico e sfortunato che trova la sua pace attraverso la finzione scenica, tanto che gli abbracci spezzati (nel passato) si ricompongo magicamente (nel presente) attraverso le immagini – significativo il puzzle di frammenti di foto, e ancor di più la sequenza meta-cinematografica dell’epilogo. E Almodovar è cinema, inconfutabilmente; cinema che appassiona e che non scade mai nel banale e nel consueto anche quando abbandona le giostre colorate e i personaggi estremi del tempo che fu. Snobbato a Cannes e in madrepatria, Gli abbracci spezzati è un film intenso e compiuto, tanto da lasciarmi profondamente dubbioso sulle motivazioni alla base delle troppe critiche ricevute. Non è il miglior Almodovar di sempre, questo è chiaro a tutti gli appassionati, ma è comunque un gran bel vedere.
Federico Magi, dicembre 2009.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Pedro Almodovar. Soggetto e sceneggiatura: Pedro Almodovar. Direttore della fotografia: Rodrigo Prieto. Scenografia: Antxon Gomez. Costumi: Sonia Grande. Montaggio: José Salcedo. Interpreti principali: Penélope Cruz, Lluis Homar, Blanca Portillo, José Luis Gomez, Rubén Ochandiano, Tamar Novas, Angela Molina, Chus Lampreave, Kiti Manver, Lola Duenas, Mariola Fuentes, Carmen Machi, Kira Mirò, Marta Aledo, Rossy De Palma, Alejo Sauras, Asier Exteandia. Produzione: El Deseo S.A., Universal International Pictures. Musica originale: Alberto Iglesias. Titolo originale: “Los abrazos rotos”. Origine: Spagna, 2009. Durata: 129 minuti.
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