Terza e conclusiva collaborazione con l’amico e regista Maurizio Ponzi, Son contento è anche l’ultima pellicola in cui Francesco Nuti non si dirige (se si eccettua Concorso di colpa di Claudio Fragasso, ultima apparizione del comico toscano sul grande schermo, datata 2005), uscita nelle sale due anni prima di Casablanca Casablanca, suo convincente esordio dietro la macchina da presa. Della trilogia ponziana, consumata nell’arco di un paio di stagioni (1982-83), Son contento è certamente l’opera più ambiziosa e ricca di spunti di riflessione, ancorché Io, Chiara e lo Scuro sia nel complesso un film meglio riuscito rispetto alla pellicola in questione. Se Madonna che silenzio c’è stasera era stato costruito sulla falsariga dell’esordio assoluto con i Giancattivi (Ad ovest di Paperino, diretto da Alessandro Benvenuti), sostanzialmente togliendo i personaggi interpretati da Benvenuti e dalla Cenci, quasi ricalcandone trama e identità narrativa, e Io, Chiara e lo scuro avrebbe generato un degno seguito (Casablanca Casablanca), incentrato su alcuni leit motiv della cinematografia nutiana (il biliardo e l’indagine del rapporto di coppia), Son contento è invece un’opera a sé che, oltre alla consueta indagine sentimentale, mette al centro della vicenda la riflessione sull’artista e la sua arte.
È la storia di Francesco, giovane cabarettista che entra in crisi creativa quando è lasciato dalla sua ragazza, Paola, da quattro anni con lui convivente. Paola lavora alle poste e lo abbandona proprio per un postino, qualcuno che riesce a darle quella stabilità e quell’attenzione che non può trovare con un artista girovago. Dopo aver perso tutti i contratti di lavoro, consigliato dall’agente di prendersi una vacanza e ripensare i suoi spettacoli, Francesco si ridesta dal torpore e torna brillante protagonista sui palcoscenici che gli erano consueti. Tornano le proposte, le offerte di contratti assai remunerativi ma Francesco prende tempo: ha in mente di modificare il suo personaggio, di attingere, come era accaduto nel momento in cui Paola lo aveva abbandonato, al proprio privato. L’agente è dubbioso e cerca di convincerlo a firmare contratti sicuri, nel reciproco interesse. L’artista rompe gli indugi quando ad una festa, in compagnia dell’inseparabile agente, ritrova Paola, che non l’aveva certo dimenticato. Si riaccende il fuoco, l’amore mai sopito, i due ragazzi sono vicini come non lo erano mai stati in precedenza. Paola è convinta che stavolta sarà diverso, che Francesco la ami come se non più della sua arte. L’epilogo, in cui l’artista mette in scena le vicende del ritrovato amore tra i due ragazzi, convincerà Paola di aver preso un abbaglio. Se ne andrà, forse per sempre, mentre lo spettacolo continua.
Tema non nuovo e sempre suggestivo, il rapporto tra l’artista e la sua arte, tra l’arte e la vita, è toccato con garbo e leggerezza dalla commedia di Ponzi, con toni intimi e sottilmente malinconici, riscontrabili soprattutto nel non banale epilogo. L’assenza del lieto fine, con aperture al dubbio e alla riflessione, è certamente un punto a favore di un’opera che è a tratti un po’ esile ma affatto di maniera. Oramai Nuti comincia a consolidare il suo personaggio, a strutturare i suoi tic, le sue manie, le sue idiosincrasie, a recitare con la consapevolezza di aver creato qualcosa di nuovo, una maschera diversa da quelle che lo avevano preceduto nella lunga e indimenticabile stagione della commedia all’italiana. Ponzi incrementa i primi piani sul protagonista, gli lascia briglia sciolta negli intermezzi monologanti, sempre rivolti a un contraltare improbabile o immaginario. È il caso del discorso rivolto alla poltrona vuota nel curioso incipit, immaginando fosse proprio l’amata Paola la destinataria delle parole di Francesco. Ma sono, probabilmente, le parole di congedo lasciate all’uccellino deceduto per assenza di cibo (Francesco, nel suo dolore confuso per l’amore perduto, si dimentica delle sorti del volatile nella gabbietta) a evidenziare la vena malinconica del film, quando il ragazzo s’accorge che il mal d’amore non uccide, al contrario della fame. E da qui il ridestarsi dell’artista, la voglia di assecondare il suo estro per ribaltare dinamiche emotive autolesioniste. E qui si potrebbe discutere a lungo su quanto l’inclinazione artistica, nella fattispecie ma non solo, sia fonte di salvezza o di estraniazione-allontanamento dalla realtà, quanto offuschi il sentimento con apparente leggerezza. Ed infatti Francesco, oltre che involontariamente autolesionista, dopo l’epilogo potrebbe sembrare addirittura masochista: come se l’antica sofferenza non avesse insegnato nulla. Ma Ponzi e Nuti, come prima di loro altri grandi del palcoscenico (pensiamo a Chaplin e Fellini, tanto per dirne un paio che troneggiano nell’Olimpo di celluloide, senza peraltro voler proporre alcun improbabile paragone con l’opera in questione), ci confermano che l’artista è oltre le “cose terrene”, che è nato ed è forse costretto a vivere come un vero e proprio “missionario”. Suo compito è divulgare il verbo, il suo verbo, quella voce insopprimibile anche di fronte al dono dell’umano corrispondersi. L’artista è solo, e non a caso Francesco, come tanti dei suoi colleghi, vive incollato al suo agente: perché è il prolungamento di sé, è la parte razionale, non creativa, burocratica, comunque essenziale per avere la possibilità di diffondere la sua arte.
Detto del lato epico-romantico, quasi titanico dell’anima dell’artista, c’è da rilevare come la pellicola, non perdendo mai lo spettro della realtà, ci restituisca la complessità della figura di un giovane cabarettista di provincia, del suo “mestiere nomade” e privo di certezze, dell’ingrato destino cui va incontro quando la stella del successo non brilla più. Ponzi, difatti, rispetto al Nuti regista tiene maggiormente i piedi in terra e non cerca slanci onirici, fughe nel sogno o nel nonsense: non c’è nessun personaggio inverosimile o sopra le righe (al contrario non solo delle successive opere nutiane, ma anche, se vogliamo, dei due lavori comuni precedenti). Vi è assenza assoluta delle consuete macchiette. Gli attori sono in parte: Nuti monologa trovando sempre la giusta misura, la De Rossi è dolce e sensuale e il bravo Giuffré in grande spolvero (David di Donatello come miglior attore non protagonista).
Le tre opere Nuti-Ponzi, Madonna che silenzio c’è stasera, Io, Chiara e lo Scuro e Son contento, oltre al manifesto sentimentalismo velato di malinconia, tentano di proporre, con i toni leggeri da nuova commedia di costume in salsa toscana, la crisi dei trentenni del tempo, girovaghi perdigiorno in cerca di qualcosa o di qualcuno che li faccia evadere dalla grigia realtà di provincia (i luoghi agognati, come il Perù in Madonna che silenzio c’è stasera e il Messico nel film in questione). Siamo negli anni del riflusso, infatti, delle ideologie quasi del tutto crollate, e il vuoto esistenziale e la precarietà emotiva cui sarebbero andati incontro i trentenni delle generazioni immediatamente successive erano ancora una nebulosa indecifrabile. Chissà se avesse avuto trent’anni oggi, il bravo comico toscano… chissà cosa avrebbe filmato con la sua acuta sensibilità? È un dubbio che resterà purtroppo tale, visti i rovesci della sorte che hanno investito lo sfortunato artista di Narnali.
Federico Magi, febbraio 2008.
Edizione esaminata e brevi note
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