Peter Jackson è l’uomo delle imprese impossibili, o meglio, il regista degli adattamenti impossibili o quanto meno improbabili, visto che dopo aver tentato – riuscendo a convincere e a tratti a strabiliare, sia pur rileggendo la fiaba in modo personalissimo – l’impresa di adattare cinematograficamente il maestoso capolavoro fantasy di J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli, si è lanciato in un’altra complicata rivisitazione di uno dei maggiori successi letterari degli ultimi anni, Amabili resti della scrittrice statunitense Alice Sebold. Impresa non meno ostica, per chi conosce il complesso romanzo della Sebold, per l’evidente difficoltà di riprodurre in immagini non soltanto il limbo in cui si ritrova la sfortunata ragazzina brutalmente assassinata, ma soprattutto i nessi tra il mondo terreno e quello sospeso, una consequenzialità descrittiva che la Sebold tiene magicamente in equilibrio con continui ed efficaci interscambi dimensionali davvero difficili da restituire fluidamente dal punto vista visivo, senza rischiare di perdere più di qualcosa in efficacia narrativa. E in effetti Peter Jackson trova proprio in questo punto nodale del romanzo l’ostacolo più duro da superare, incontrando poco prima della metà dell’opera degli intoppi narrativi che gli hanno fatto incassare alterni consensi di critica e una tiepida accoglienza da parte del pubblico. Fuori da ciò, ed entrando nel discorso cinema, che è sicuramente altro e oltre l’impressione degli spettatori occasionali e l’inerzia giudicante di alcuni critici che restano alla superficie delle cose osservate, Amabili resti è un film che, pur nella sua imperfezione, fa breccia profonda in chi si lascia vincere dalla grandezza del mondo di celluloide di Peter Jackson, il quale rilegge ancora una volta a suo modo un testo letterario e, come in passato, riesce a trasportarne l’anima sullo schermo facendo leva non soltanto sulla sua indubbia capacità di donare enorme potere alle immagini, ma anche addizionando o sottraendo sottotesti dal testo base, senza peraltro alterarlo, per potenziarne o attenuarne gli elementi in una chiave intima e personale decisamente coraggiosa. Prima di approfondire i motivi dell’opera, ripercorriamone brevemente la trama.
Pennsylvania (Stati Uniti), 1973. Susie Salmon è un’adolescente, appena 14enne, allegra e spensierata. È vivace e intelligente, ha l’hobby della fotografia e vive con i genitori, una sorella di poco più piccola e un fratellino. Susie Salmon ha da poco incontrato anche il ragazzo che le fa battere il cuore, uno studente più grande che le ha fatto una dichiarazione in piena regola. Ha appuntamento con lui un sabato, per quello che sarà il suo emozionante primo bacio. Così le ha detto la nonna, che può lasciarsi andare, perché il primo bacio è bellissimo, memorabile. Susie Salmon a quel primo bacio non ci arriverà mai, perché violentata e uccisa da un vicino di casa che si scoprirà essere un assassino seriale di giovani donne, adolescenti e persino bambine. Susie Salmon ora si trova in un mondo intermedio, in una terra di mezzo che non è né cielo né terra. Cerca un cooridoio per arrivare a toccare la luce più alta, una dimora accogliente, una porta per il paradiso. Ma qualcosa la trattiene nel limbo, un sentimento di vendetta nei confronti di chi le ha sottratto la vita ancora in fiore. Susie Salmon allora costruisce immaginificamente la sua terra di mezzo, con le fantasie proprie della sua tenera età, con un occhio al cielo e uno alla terra, seguendo le gesta dei suoi cari, distrutti dall’evento, e quelle di un assassino che si sente sicuro ma che ha più che mai il fiato sul collo: il sottile filo che la lega alle cose terrene dà modo a Susie di lasciare impercettibili segni per indirizzare il padre verso la soluzione del caso, legandolo inevitabilmente a sé fino all’epilogo. Susie guarda la vita dal suo osservatorio privilegiato, e fa di tutto per rimanere vicino agli amabili resti che la vita le ha lasciato, tutti quegli affetti e quei momenti che comunque restano, come fotogrammi indelebili, nella memoria dell’anima.
Un film intenso, che riesce attraverso il lirismo e l’immaginazione a vincere l’orrore di una vicenda atroce e crudele; una dolorosissima fiaba nera in cui Jackson usa tutto il tatto possibile per restituire allo spettatore una storia che nel testo d’ispirazione è descritta in maniera più scabrosa e inquietante. Il regista neozelandese, in effetti, omette la violenza a livello visivo, e a livello narrativo glissa sulle barbarie sessuali subite dalle giovani vittime, forse per evitare tagli o problemi di censura, o più probabilmente per sensibilità. E la scelta non è affatto insensata, visto il taglio poetico dell’opera. Certo, come si accennava in precedenza, Jackson incontra difficoltà d’amalgama, nonostante il riuscito incastro della voce fuori campo della ragazzina come io narrante, e dopo 30-40 minuti magistrali (più o meno fino alla morte di Susie) l’opera rallenta visibilmente dal punto di vista narrativo e da qui in poi incontra l’insormontabile ostacolo di cui si diceva, quello di trovare una consecutio lineare tra i due mondi. Ma è una pecca che non inficia la bellezza e la complessità di una pellicola in cui tutti gli elementi tecnici sono di assoluto livello, a partire da una fotografia che riesce brillantemente ad alternare gli stati emotivi attraverso le innumerevoli tonalità di luce e buio con cui contrappunta tutte le sequenze fondamentali. Poi c’è la regia di Jackson, e qui siamo su livelli di classe purissima, perché parliamo veramente di un grande costruttore di immagini e di un sapiente direttore d’attori. Altro punto forte del film è infatti il ricco e ispirato cast, nel quale si elevano le performance della bravissima e giovanissima Saoirse Ronan (nata in America, ma irlandese d’adozione), già apprezzata in Espiazione e Houdini (altre due grandi prove: nella prima fu candidata all’oscar come non protagonista, nella seconda oscura per presenza scenica e bravura Guy Pearce e Catherine Zeta Jones) e di un monumentale Stanley Tucci, davvero perfetto nei panni d’un assassino glaciale e spietato, per questa interpretazione in corsa per l’oscar come non protagonista. Ottimi anche Mark Wahlberg e la sempre brava e bella Rachel Weisz, decisamente in parte anche Susan Sarandon, che nei suoi brevi intervalli recitativi dà sfoggio della sua consumata bravura. Notevole la colonna sonora del grande Brian Eno, dalle sofisticate venature new age.
Siamo ancora una volta nella terra di mezzo, a ben guardare, territorio che piace a Peter Jackson sin dai primordi del suo bizzarro cinema, nel quale costruiva mondi beffardi e improbabili per alterare cinicamente la realtà nel tentativo di criticarla sotto metafore splatter-demenziali. Siamo sempre in territori sospesi, da Creature del cielo (per certi versi il più affine dei suoi film ad Amabili resti), Sospesi nel tempo fino a King Kong, passando per la trilogia tolkeniana, per poi planare nell’universo di un’anima strappata brutalmente dagli affetti e dalla vita. E qui Jackson ci regala il suo personale sguardo animico e spirituale, filtrato dagli occhi purissimi di un’adolescente sfortunata, una sorta di misticismo laico in cui la realtà è alterata nella ricerca di nuove dimensioni che si emancipino dall’orrore che a volte ci riserva la vita, quell’orrore così crudele e insensato che consente all’uomo di abusare del suo libero arbitrio senza la certezza di un giudizio superiore, trascendente, divino. Ecco allora la terra di mezzo, quel mondo sospeso tra terreno e divino in cui la distanza ci pone in equilibrio: in equilibrio per trovare i motivi per dar nome all’assurdità del male, in equilibrio ad osservare gli amabili resti di un passato che si annulla per rinascere in una nuova dimensione (meta)fisica e temporale che è al contempo nuova vita dell’anima. Una memoria affettiva incancellabile, qualunque sia il mondo che il destino le ha riservato in sorte. Amabili resti è una grande storia: un libro potente e un film bellissimo proprio perché imperfetto, perché umano troppo umano nel suo voler restituire quell’intervallo possibile tra il qui e l’oltre che è sempre al centro dei nostri interrogativi esistenziali.
Federico Magi, febbraio 2010.
Edizione esaminata e brevi note
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