Bertolucci Bernardo

La luna

Pubblicato il: 23 Luglio 2009

Dopo un film corale, dai toni epici e dalla lunghissima gestazione come Novecento (5 ore di durata, diviso in due atti, per le sale), Bernardo Bertolucci sente l’esigenza di lavorare ad una pellicola intimista e costruita su pochi e ben delineati personaggi. Ecco che nel 1979 esce La luna, opera controversa e simbolica già dal titolo, che rievocherebbe in qualche modo – a detta dello stesso Bertolucci – la primissima infanzia del regista e il suo rapporto con la madre. La luna fotografa, in effetti, il doloroso rapporto tra una madre e un figlio adolescente, sviluppatosi attraverso assenze e vuoti comunicativi che il ragazzo cerca di colmare attraverso l’uso di eroina. Ad innescare nuove polemiche, dopo lo scandaloso, per l’epoca, Ultimo tango a Parigi, fu uno dei temi portanti del film, ovvero il rapporto incestuoso tra madre e figlio, filmato da Bertolucci con la consueta disinvoltura e con una certa dose di voyeurismo – all’acqua di rose, comunque, se paragonato ad un film compiaciuto e “guardone” come il pessimo The Dreamers -, considerando il periodo storico in cui è uscito il film. Fuori dai presunti sensazionalismi tematici e visivi, Bertolucci restituisce comunque un’opera ricca di sottotesti e densa di interrogativi, rafforzati da un’indagine psicanalitica che manifesta un’adesione costante e progressiva alle teorie freudiane, cospargendo il film di “motivi edipici” e strutturandolo geometricamente come una lunga seduta d’(auto)analisi dall’inevitabile finale catartico. Vediamone brevemente la trama.

Dopo la morte del marito, la nota soprano Caterina Silveri decide di lasciare New York portando con sé il figlio quindicenne, per andare in Italia a fare una lunga tournée. Joe è un ragazzo che vive un profondo disagio affettivo, dovuto alle reiterate assenze della madre e a una solitudine crescente che una volta arrivato a Roma lo porta in breve tempo a uno stadio molto serio di dipendenza da eroina. Carenze affettive ed eroina creano una miscela esplosiva che innesca nel giovane depressione e desiderio d’auto annientamento, cui la madre troppo presa da sé e dal successo pare non rendersene conto. La scoperta delle condizioni del figlio è per Caterina un fulmine a ciel sereno. Del tutto impreparata ad affrontare la situazione, la soprano procederà per tentativi fino a consumare – nel cercare confusamente di donare quell’amore materno mai percepito dal ragazzo – un rapporto incestuoso in un’atmosfera di tragedia e disperazione. Ma nulla pare scuotere Joe, né le attenzioni sessuali né tanto meno la rinuncia della madre a cantare. Non resta che un un’unica soluzione, per Caterina, raccontare al figlio la verità. Svelandogli chi è il suo vero padre.

Ricostruito visivamente immaginando l’allegoria della luna, il rapporto edipico tra madre e figlio è raccontato da Bernardo Bertolucci per mezzo di rielaborazioni e trasfigurazioni del suo primo sentire, attraverso l’ausilio di suggestioni care al regista, come Verdi, la musica classica e la sua Parma. Nonostante il nucleo della vicenda abbia luogo in una Roma insolitamente esotica e poco rumorosa, che fa da sfondo a un dramma intimo che trova la sua liberazione in un simbolico quadro di ricongiungimento e nella conseguente restituzione dei ruoli originari per ogni protagonista sulla ribalta. La luna appare nei momenti nodali della pellicola, e giganteggia ultima in un cielo che si emancipa dal dolore e dal nonsenso, per rievocare al regista, secondo una suggestione circolare – scena che ha filmato così come la ricordava – un volto materno filtrato dagli occhi di un bambino felice e “innamorato”. L’amore per la madre si trasforma, per estreme conseguenze – ed è questa la “giustificazione” -, in pulsione sessuale, in desiderio e bisogno di un contatto vero, totale, unico, includente, privilegiato. L’incesto è la conseguenza, non il fine, è uno stadio intermedio che il regista immagina come estrema ratio e come necessità cui una madre disperata arriva per assecondare una deriva affettiva da lei stessa involontariamente creata. Tutto ciò portò a giudizi e prese di posizione feroci da parte della critica americana (l’opera è una coproduzione Italia-Stati Uniti), mentre al contrario la meno bigotta Europa accolse molto meglio il film, decretandone anche un discreto successo commerciale.

Sempre riconoscibile la cifra autoriale, in un lungometraggio di rottura rispetto alle opere precedenti del regista (centrale, nel passato, era sovente la figura paterna) ma molto bertolucciano nei motivi narrativi e nella forma, nell’impostazione ideologica, nella fattispecie non propriamente politica, come in passato era accaduto, soprattutto per l’uso libero e creativo della macchina da presa – suggestivi i movimenti di camera dal basso verso l’alto -, nel ricercare le evocazioni attraverso i volti, in particolare nei primi piani alternati della sequenza conclusiva. Ottime le prove dei due protagonisti, Matthew Barry (qui adolescente, e protagonista di film non memorabili, nel prosieguo della carriera) e in particolare Jill Clayburgh, che fu anche candidata al Golden Globe per questa interpretazione. Breve ma intensa anche la prova di un inusuale Tomas Milian, nel ruolo del vero padre di Joe, al tempo all’apice del successo, in Italia, per i film di LenziCorbucci, nei quali interpretava ora il Monnezza ora la sua nemesi-alter ego, il maresciallo Giraldi. Cammei per gli allora poco noti Carlo Verdone e Roberto Benigni, in apparizioni davvero insolite, nonché per Franco Citti nel disturbante ruolo di un vizioso adescatore del ragazzo. Ottima la fotografia di Storaro, sempre capace di donare all’opera un plusvalore narrativo oltre ché estetico, di rilievo la scenografia.

Uscito a otto anni di distanza da Il soffio al cuore di Lous Malle, che trattava la complicata educazione sentimentale di un quindicenne culminata nell’incesto, La luna è un film assai più doloroso – con  estemporanee rotture e intermezzi che sfiorano il surreale comico e il nonsense – e meno lineare del francese, a tratti squilibrato perché intriso di uno scoperto psicologismo che risulta fin troppo estetico e ridondante, fin troppo intellettuale nel suo incedere melodrammatico, tanto da mostrare il suo limite più evidente, quello di essere palesemente pensato a tavolino e narrativamente stereotipato. Nonostante ciò ha il pregio di tentare di volare alto, pur all’interno di una cornice intimista dai tempi eccessivamente dilatati, e di una evidente autorialità, dimostrando che Bertolucci manteneva intatta quella capacità – mai del tutto venuta meno, nemmeno nell’ultimo, poco prolifico e non particolarmente ispirato quindicennio – di pensare il cinema come un’ arte superiore che sapeva fondersi, nelle sue mani, con la letteratura e la musica classica, conservando quell’elemento mitologico (anche eccessivo: culminato spesso nell’ideologia) e sottilmente snobistico che è stato la sua fortuna e al contempo il suo limite: Novecento docet.

Federico Magi, luglio 2009.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Bernardo Bertolucci. Soggetto: Franco Arcalli, Bernardo Bertolucci, Giuseppe Bertolucci. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Clara Peploe, Giuseppe Bertolucci. Direttore della fotografia: Vittorio Storaro. Montaggio: Gabriella Cristiani. Interpreti principali: Jill Clayburgh, Matthew Barry, Tomas Milian, Veronica Lazar, Renato Salvatori, Alida Valli, Laura Betti, Fred Gwynne, Franco Citti, Rodolfo Lodi, Carlo Verdone, Roberto Benigni, Sara Di Nepi, Peter Eyre, Julian Adamoli, Enzo Siciliano, Nicola Nicoloso, Mario Tocci, Mimmo Poli. Scenografia: Maria Paola Maino, Gianni Silvestri. Costumi: Lina Nerli Taviani. Musica originale: Ennio Morricone. Produzione: Giovanni Bertolucci per Fiction Films SPA in collaborazione con 20th Century Fox. Origine: Italia / Usa, 1979. Durata:140 minuti.