Immaginatevi un quartiere degradato all’inverosimile, affollato di famiglie che vivono in abitazioni fatiscenti al cui interno è facile incontrare topi di tutte le dimensioni. All’esterno, invece, il panorama offre immondizia su immondizia, sacchi di spazzatura tra cui giocano i bambini e un canale ricco di sporcizia e detriti, pericoloso più di quanto non dica la quieta apparenza. Non siamo in una città del così detto terzo mondo, ma in un sobborgo periferico di Glasgow, nel 1973. Ratcatcher, letteralmente l’acchiappatopi, e l’opera prima, datata 1999, della poco prolifica ma assai dotata regista scozzese Lynne Ramsay, recentemente tornata al lungometraggio con il fascinoso e inquietante …E ora parliamo di Kevin, la quale ci racconta con gelido realismo, attraverso il punto di vista di James, un ragazzino di dodici anni, la difficile e desolante condizione sociale in cui versava solo quarant’anni fa l’estrema periferia della città scozzese.
James Gillespie (William Eadie) trascorre il tempo a giocare lungo il canale vicino alla sua abitazione fra i cumuli di immondizia. La sua vita non è facile, non solo per la disagiata condizione sociale ma anche per la totale assenza di empatia e di dialogo con un padre alcolizzato e totalmente disinteressato al suo mondo e ai suoi desideri. Inoltre, è l’involontario artefice della morte di un amico affogato nel canale. Conosce una ragazza di quattordici anni, Margaret Anne (Leanne Mullen), per la quale comincia a provare dei sentimenti, nonostante essa sia messa in mezzo, anche sessualmente, da una banda di coetanei che si approfittano ripetutamente di lei. Proprio quando sembra che qualcosa per lui debba migliorare, sia per ciò che riguarda il legame con Margaret sia per il riavvicinamento al padre che nel frattempo è diventato un eroe per aver salvato un ragazzo che annegava nel canale, James è costretto a fare i conti con un’evidenza che sembra priva di promesse e di speranze: il padre non è affatto cambiato, tanto da picchiare la madre dopo essere tornato a casa ancora una volta ubriaco fradicio, e il candido amore per Margaret è un’illusione destinata a infrangersi sul muro di una sconfortante realtà. Sopraffatto dai sensi di colpa per la morte dell’amico e dall’odio per un padre a cui non vuole assolutamente assomigliare, James sembra abbandonare anche l’ultimo sogno di felicita: la possibilità di un nuovo alloggio per lui e la sua famiglia.
Il cinema britannico torna ciclicamente a raccontare il degrado della periferia (sotto)proletaria ai margini dei grandi centri urbani, e nel solco della lezione di Ken Loach e Mike Leigh lo fa affidandosi al crudo realismo delle immagini delle rovine morali e materiali che i governi spesso hanno occultato nell’intento di anestetizzare popoli assuefatti da messaggi mediatici – subliminali e non – votati all’opulenza, al consumo, al miraggio di un benessere definitivo e perdurante. Inutile richiamare l’odierna realtà delle città d’Europa come contraltare critico facile facile alla disinformazione indotta che ha alimentato le illusioni dei popoli occidentali, non è questo il punto o lo è solo marginalmente analizzando questo tipo di cinema. Il film d’esordio della Ramsay, crudo e realistico come pochi altri, va oltre l’evidenza delle pur doverose generalizzazioni critiche, per presentare allo spettatore un contesto di povertà assoluta e senza ritorno, senza redenzione e senza riscatto, senza speranze e senza sogni: senza possibilità di salvezza. La Glasgow degli anni Settanta, e a guardar bene le cronache del tempo non soltanto i sobborghi e le periferie, assurge – in peggio, evidentemente – al triste ruolo della Napoli di questi ultimi anni. La Ramsay si cala in questo tempo ingrato, quando le strade della città cominciavano a riempirsi di sacchi della spazzatura per uno sciopero prolungato dei netturbini locali, quando i topi spadroneggiavano e quando i pidocchi e le malattie dovute alla sporcizia circolavano con impressionante frequenza. La regista scozzese, pur partendo da certo cinema british, ci mette molto di personale nella realizzazione del suo primo lungometraggio, palesando alcuni guizzi autoriali che ritroveremo più compiutamente espressi anche nelle due opere successive. Realismo e minimalismo, in effetti, sono in qualche modo armonizzati da un tocco di estetismo che le permette di trasportare il suo cinema fino al confine di una realtà che cavalca (e scavalca), anche visivamente, il sogno; unica vera possibilità di fuga per un ragazzo che entra nell’adolescenza con lo spirito di un bimbo sopraffatto dai problemi dell’età adulta. Logico il cortocircuito che ne deriva, perché le naturali epifanie dell’età diventano momenti fuggevoli, intervalli di un tempo buio che non trova spiragli per alcun bagliore. Ecco perché l’epilogo vive di quelle due sequenze antitetiche e quasi sovrapposte: non vi sarà difficile capire, però, quale di queste possa essere sogno e quale realtà.
Il cinema della Ramsay è asciutto e potente quando indaga senza sovrastrutture e moralismi la dimensione privata del disagio, la quale diventa dimensione pubblica ed evidenza definitiva di una condizione di vita davvero incredibile se si considera il tempo e la latitudine geografica; è meno convincente, e forse volutamente, nel restituire le introspezioni di un protagonista che non regala molto di sé, non empatizza con lo spettatore ma è soprattutto emblematico testimone del degrado in cui molte famiglie sono imprigionate non solo fisicamente. In effetti, oltre alle deprivazioni materiali, non è difficile comprendere come in un simile territorio non possa più esistere nulla che trascenda tale realtà, niente che possa far da contraltare a un’immanenza che cancella qualsiasi possibilità di volare oltre con lo sguardo, di abbandonarsi anche al più elementare conforto spirituale. Nell’intento di fortificare il racconto attraverso una finzione quanto più possibile verosimile la regista sceglie attori non professionisti, a conferma del fatto di voler privilegiare un interesse maggiore per il quadro globale da restituire più che per le vicende dei singoli personaggi. Le storie personali vengono pertanto toccate solo marginalmente, e anche il protagonista, per il quale non è previsto il consueto indugio sulla parabola dal sapore iniziatico, è emotivamente sfuggente.
Tra cieli grigi e plumbei e le tonalità spente di ogni inquadratura è proprio la fotografia a rendere esplicita un’estetica cinematografica che sceglie di attingere ai ripetuti primi piani del ragazzino per poi staccare su spazi angusti o quasi mai ad ampio respiro, nel tentativo di delineare un confine chiaro, stretto, univoco e inequivocabile in cui intrappolare senza alcuna ambiguità la triste realtà rappresentata. Mostrando già da questa sua opera prima uno stile personale che differenzia ad occhio nudo il suo cinema da quello di genere, la Ramsay dimostra di andare oltre la tentazione fotocopia di artisti come Loach (a cui è più vicina Andrea Arnold, per fare un esempio, regista dell’interessante Fish Tank), per invece solcare territori decisamente più ambiziosi ed impervi. E che la regista scozzese, nonostante i soli tre film all’attivo (il secondo è Morvern Callar, che fece vincere a Samantha Morton il British Indipendent Film Award come miglior attrice) abbia un effettivo quanto irregolare talento lo conferma proprio la sua ultima angosciante opera, in cui l’esasperata estetizzazione di alcune sequenze fondamentali scandisce visivamente la discesa agli inferi di una madre che si ritrova sola con i suoi fantasmi di morte e con un figlio minorenne costretto in carcere per aver fatto strage dei compagni di scuola.
Ratcatcher fu presentato al Festival di Cannes, nella sezione “Un Certain Regard”, ottenendo notevole successo di critica e premi in diverse altre rassegne internazionali. Riconoscimenti del tutto meritati, a parere di chi vi parla.
Federico Magi, maggio 2012.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Lynne Ramsay. Soggetto e sceneggiatura: Lynne Ramsay. Fotografia: Alvin Kuchler. Montaggio: Lucia Zucchetti. Interpreti principali: William Eadie, Tommy Flanagan, Mandy Matthews, Lynne Ramsay Jr., Michelle Stewart, Leanne Mullen, John Miller, Jackie Quinn, James Ramsay, Anne McLean, Matt Monroe, Andrew McKenna, Mick Maharg, James Montgomery, Thomas McTaggart, Stephen Sloan, Molly Innes. Scenografia: ane Morton. Costumi: Gill Horn. Musica originale: Rachel Portman. Produzione: Holy Cow Films, Pathe Pictures – BBC Films – Bertrand Faivre in collaborazione con The Art Council of England, Lazennec e Le Studio Canal+. Origine: Gran Bretagna / Francia, 1999. Durata: 93 minuti.
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