Fulci Lucio

Non si sevizia un paperino

Pubblicato il: 10 Febbraio 2007

Nel 1969, con Una sull’altra, Lucio Fulci, fino ad allora dedito alla commedia (prima come sceneggiatore, poi come regista), dà vita al suo primo lungometraggio thriller, sia pur mescolandolo a un velato erotismo. A questa pellicola ne seguiranno un altro paio davvero interessanti, Una lucertola dalla pelle di donna e il più noto Non si sevizia un paperino, che rivelarono il regista romano come autore di genere non convenzionale. Soprattutto Non si sevizia un paperino, datato 1972 e bersagliato dalla censura (per motivi che in seguito spiegheremo), rivela le indubbie qualità autoriali di Fulci, il quale regala al pubblico una storia atroce, inquietante e dolorosa, in cui mescola thriller, dramma esistenziale, critica sociale e di sistema.

Siamo ad Accendurra, tipico paese sassoso della Lucania. Gli abitanti sono sconvolti da una serie di delitti perpetrati ai danni di ragazzini quasi adolescenti. Il magistrato indaga, col supporto della polizia locale e dell’Arma, ma la popolazione, da subito insorta, cerca il colpevole, un qualunque capro espiatorio. Indaga anche un giornalista di città (Tomas Milian), venuto a seguire l’evento per un quotidiano nazionale e da subito perplesso sui primi risvolti dell’indagine. I bambini morti frequentavano tutti l’oratorio locale, gestito da un giovane parroco che ha una sorellina sordomuta. L’accusato del primo delitto è lo scemo del villaggio, ma risulta da subito evidente che il suo deficit intellettivo non può avergli consentito le pur che minime strategie omicide. La folla comunque lo vuole linciare perchè i tre bambini, tra loro amici, sono stati prima storditi e poi strozzati; l’attacco all’infanzia acceca il popolo, che tocca l’apice dell’ insensato quando superstizione e ignoranza vanno a colpire una sfortunata donna del luogo, dedita a piccole e innocue stregonerie paesane. La fattucchiera, chiamata da tutti la “Maciara” (una selvaggia Florinda Bolkan), vive rintanata nelle zone rocciose ai margini del paese e venera le ossa del corpicino del figlio che aveva perduto anni prima. La donna ha fatto una fattura sui bimbi, infilzando pupazzetti di cera (tipo rito voodoo), perché profanatori della tomba del figlio, considerato dai paesani un frutto del maligno (forse per questo non sepolto in terra consacrata). La “Maciara” si auto accusa, nell’ignoranza in cui è vissuta crede sia lei la vera colpevole delle morti, ma quando sente che i bimbi sono stati uccisi per soffocamento resta disorientata. Viene subito rilasciata, ma per il paese ormai è colpevole: verrà massacrata a bastonate e catenate in una delle più atroci scene della pellicola. Ma poi un altro delitto, un altro bambino dell’oratorio. Tutti questi fatti dimostrano che si è cercato nella direzione sbagliata, e gli indizi portano il giornalista verso una ragazza ricca (Barbara Bouchet), figlia di un abitante del luogo che ha fatto fortuna al nord, trasferitasi in terra lucana per problemi di droga. L’indizio si rivela infondato ma l’uomo ha un’intuizione, un dubbio: cosa ci fa la testa mozzata di un paperino nel luogo dell’ultimo delitto? Le motivazioni di tanto orrore verranno a galla e saranno agghiaccianti.

Opera complessa, come ho lasciato intendere in sede di introduzione, molto più di quel che può apparire in superficie. Fulci fa un film politico e anarcoide in cui lancia invettive evidenti contro il clericalismo del suo tempo, il conformismo dei benpensanti (che difatti non l’hanno mai amato) e le istituzioni politiche e religiose. È un atto d’accusa contro l’ignoranza e la superstizione che ancora perdurava nei paesi del meridione, nonostante il progresso fosse alle porte e il boom economico fosse scoppiato da tempo. Il popolo del microcosmo è descritto come rozzo, insensibile e violento, le istituzioni locali come conniventi, figlie di un potere centrale (lo Stato) del tutto assente o disinteressato. Il regista romano si muove su un registro di genere e lo fa benissimo, contribuendo alla sceneggiatura migliore che si ricordi in un suo film, costruendo un intreccio convincente che è si un pretesto per la critica sociale e culturale, ma che regge benissimo l’ impianto da thriller atipico.  È un Fulci coraggioso e provocatorio, considerando l’epoca, non solo perché le vittime sono bambini ma perché a condannarle a morte, come scoprirete guardando il film, è uno dei presunti peccati dello spirito che investe anche il corpo: la tentazione della carne. A questo proposito c’è una scena rimasta emblematica, oggetto di feroce contenzioso con la censura, allorché un bimbo (la seconda vittima) si avvicina ad una Bouchet senza veli, le cui notevoli grazie del tempo non potevano passare inosservate. Ad ogni modo, bimbo di dieci-undici anni e donna nuda vicini non sono compatibili nella bigotta Italia democristiana, tanto che per non farsi bruciare la pellicola Fulci dovette dimostrare (non so come) che la parte del bimbo fu interpretata da un nano (sarà vero? – a me sembrava proprio un bimbo). La censura fu comunque pesante (e il film fu vietato ai minori), nonostante non ci siano scene splatter (a parte il cranio fracassato dell’assassino nella sequenza di chiusura), considerando i nudi ma soprattutto l’ostracismo nei confronti del regista romano, classificato oramai come autore diseducativo dalle istituzioni e come spazzatura dagli intellettuali. Eppure Fulci aveva talento, e qui lo dimostra in pieno, nonostante lo scarso budget a disposizione: una potente antimorale anarcoide connota questo film, il quale “riabilita” il candore dell’infanzia sacrificata sull’altare della follia religiosa attraverso un uso misurato e quantomai affascinante del flashback, stigmatizza la volgarità dell’ignoranza paesana cercando il dettaglio (i volti, le modalità del disprezzo: gli sputi, l’indifferenza), restituisce la vita strappata ai fanciulli filmando il sorriso puro e il bacio fraterno di una bambina portatrice d’handicap (nell’epilogo, rivolta all’assassino), facendola emblema della diversità. I bambini e la diversità, temi che, separati o intrecciati sono caratteristici del cinema fulciano, sempre incline ad indagare ciò che solitamente disturba, che è spesso marginale e relegato nell’oblio delle coscienze dell’Italia del suo tempo. A questo proposito il titolo (potente, bellissimo: Non si sevizia un paperino) è già una dichiarazione d’intenti, una sfida ai benpensanti, un attacco alla morale pubblica, al comune sentire.

L’ambientazione scelta da Fulci, la provincia profonda, sconosciuta e inconoscibile ai più, è congeniale e perfettamente calzante con l’idea del regista, assai suggestiva e innovativa per un thriller. Anni dopo Pupi Avati, con l’opera divenuta cult La casa dalle finestre che ridono e con Zeder, seguirà suggestioni e ambientazioni fulciane, avvalendosi anche dello stesso musicista del film in questione (Riz Ortolani). Ritz Ortolani, nell’opera di Fulci, riduce la sua presenza ai minimi termini, favorendo una canzone malinconica della Vanoni (Quei giorni insieme a te) che riecheggia spesso nel finale. Tra gli attori registriamo volentieri la Bouchet per l’evidente bellezza, Tomas Milian per il mestiere, Florinda Bolkan per l’impegno: a differenza degli horror fulciani degli Ottanta, comunque ricchi di affascinante visività, qui gli interpreti sono dignitosi.

Ciò che emerge violento in questa riuscita opera del regista romano è il contrasto tra progresso e superstizione, bigottismo e coscienza dei mutamenti sociali, conformismo e diversità. E Fulci è sempre stato orgoglioso della sua diversità artistica, comunque costretto a piegarsi a compromessi con la produzione (i budget modesti non favorivano), ma mai sull’impianto “ideologico” di fondo. Filmare ciò che la gente rifiuta, ciò di cui ha paura, ciò che gli è sconosciuto, lontano, diverso, è stato sempre l’imperativo del suo cinema. Cinema “anarco-rivoluzionario” per il tempo che lo ospitava, da rivalutare, da riscoprire, da riassaporare seguendo un iter qualitativo che ha origine con le pellicole dei primi anni Settanta, saltando certo qualche opera trascurabile e partendo proprio da questo film.

Curiosità: La versione che gira in Italia è tagliata, soprattutto nelle scene di nudo e nel massacro della Bolkan (che ricorda da vicino quello dell’incipit ne L’aldilà). Come spesso accade per le opere di Fulci bisogna andare all’estero per trovare le versioni integrali. In Olanda, per quello che concerne questo film.

Federico Magi, febbraio 2007.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Lucio Fulci. Soggetto: Lucio Fulci, Roberto Gianviti. Sceneggiatura: Gianfranco Clerici, Lucio Fulci, Roberto Gianviti. Direttore della fotografia: Sergio D’Offizi. Scenografia: Pierluigi Basile. Costumi: Marisa Crimi. Montaggio: Ornella Micheli. Interpreti principali: Tomas Milian, Florinda Bolkan, Barbara Bouchet, Irene Papas, Marc Porel, George Wilson, Virgilio Gazzolo, Ugo D’Alessio, Antonello Campodifiori, Vito Passeri. Musica originale: Riz Ortolani. Altro titolo : ”Don’t torture a duckling”. Origine: Italia, 1972. Durata: 102 minuti.