Il secondo e ultimo lungometraggio di Narciso Ibanez Serrador, regista spagnolo classe 1935, arrivato al cinema grazie al successo ottenuto con una serie televisiva (Historias para no dormir) da lui ideata, è probabilmente oggi un film dimenticato o del tutto sconosciuto agli amanti di genere. Il genere è il thriller/horror, come intuibile anche dal titolo della serie tv, territorio in cui il regista iberico dimostrò di sapersi ben destreggiare e forse anche qualcosa di più. Ma come si può uccidere un bambino?, uscito nelle sale proprio nel cuore degli anni Settanta, segue infatti l’affascinante Gli orrori del liceo femminile (il cui titolo originale, decisamente più essenziale, è La residencia), datato 1969. Solo due pellicole, ma due titoli che restano ben impressi nei ricordi di chi li ha visti, due film che costruiscono la tensione e lo spavento evitando il sangue gratuito e puntando sulle ossessioni. Un modo di far cinema che consente a Serrador di denunciare nel primo caso la dittatura franchista e nel secondo le prime vittime degli orrori che porta con sé ogni guerra: i bambini. Se nel film d’esordio Serrador si dimostra più incline al thriller psicologico, in Ma come si può uccidere un bambino? i risvolti orrorifici sono maggiormente evidenti e motivati anche dalla scelta di render più palese, fino ad esasperare, la denuncia che è alla base dell’opera – ne La residencia, invece, i motivi della vicenda vengono esplicitati attraverso un sottotesto più ambiguo basato su frammenti di nevrosi e perversioni individuali, alimentate dal contesto malsano nel quale era imprigionata un’intera nazione. In questo suo secondo e ultimo film l’orrore diventa fenomenologia collettiva, e quasi come a voler immaginare una feroce e ineluttabile legge del contrappasso, trasforma le vittime più indifese nei carnefici più efferati: i bambini.
Il film apre su agghiaccianti immagini di repertorio di guerre sanguinose del Novecento, intervallate dai titoli di testa accompagnati da un sottofondo musicale vagamente sinistro. Protagonisti sono i bambini: vessati e vilipesi, affamati, denutriti, consumati dalle malattie, imprigionati in campi di concentramento e gettati nelle fosse comuni. Il breve documentario va a toccare tutte le latitudini del globo, a voler così dimostrare che il ventesimo secolo ha partorito orrori e mostruosità un po’ ovunque, a oriente come a occidente, nei paesi “civilizzati” come nel “terzo mondo”. Per quanto fosse già tutto noto nei Settanta, anche a guardarlo oggi è un documento che difficilmente si riesce a sostenere con occhi “solo” giornalistici o anestetizzati dalla distanza temporale, nonostante la breve ma intensa durata: una decina di minuti circa. Poi, improvvisamente, quasi per contrasto Serrador ci porta su una spiaggia spagnola affollata di gente, focalizzandosi una coppia di turisti inglesi, Tom e Evelyn, diretti in una piccola isola, Alzamora, situata non molto distante. Una volta arrivati ad Almazora, i due si trovano di fronte uno scenario sinistro e desolato in cui si imbattono solo in bambini non più grandi di 10-11 anni, che naturalmente non capiscono l’inglese. Ma perché in questa piccola isola, completamente scollegata dal continente, gli adulti sembrano essere scomparsi? La risposta non tarderà ad arrivare, e sarà terrificante.
Piccolo e misconosciuto gioiello del cinebrivido dei prolifici anni Settanta, Ma come si può uccidere un bambino? conferma su livelli ancora una volta degni di nota il breve feeling tra Serrador e la settima arte, prematuramente abbandonata dal regista iberico per abbracciare la televisione e diventare ricco inventando un fortunatissimo programma a quiz, Un dos tres. Evitando accuratamente di lasciarmi andare a falsi moralismi o giudizi artistici non richiesti, mi limito soltanto a registrare che è un peccato che la carriera cinematografica di Serrador sia finita con questo film. Detto ciò, e tornando alla pellicola in questione, Serrador dimostra di saperci davvero fare e gioca con estrema scioltezza sia con le suggestioni visive che con quelle psicologiche, scegliendo di filmare l’orrore – come aveva fatto anche Armando Crispino, con l’interessante Macchie solari, di un anno precedente – alla luce del sole, evitando così tutto il repertorio di buio e penombra tanto caro agli artigiani dello spavento. L’opera è peraltro basata su un continuo crescendo emotivo, su contrasti visivi disturbanti (uno su tutti: dalla denutrizione dei bimbi africani si passa in breve ai corpulenti ed obesi signori borghesi in spiaggia), su dialoghi essenziali e funzionali a un racconto basato quasi totalmente sull’impatto delle immagini, e su un epilogo raggelante dal retrogusto apocalittico. Il tutto ottenuto con mezzi esigui e molto senso del cinema: dalla scelta accurata delle inquadrature a una fotografia, come già accennato, tutta orientata ad esasperare una lucentezza volutamente dissonante rispetto ai motivi della storia.
Il regista spagnolo si concentra sull’effetto straniamento, sia amplificando i contrasti e le dissonanze a livello visivo, sia nel concepire una pellicola a metà tra l’horror e il film politico. Una denuncia contro gli orrori perpetrati ai danni dell’infanzia, da regimi democratici e non, che trova la sua nemesi in una vendetta messa in atto con ferocia e sarcasmo. Lo scioccante finale dell’opera non risparmia, ancora una volta, la morte violenta per alcuni fanciulli sulla ribalta. Ma c’è qualcosa di diverso nel loro sguardo, rispetto ai documentari: adesso sono un corpo unico, senza paura e forse anche senz’anima, o più probabilmente senza alcuna pietà per coloro che li hanno resi vittime sacrificali sull’altare di vecchi e nuovi imperialismi.
È una potente e crudele allegoria quella filmata da Serrador; una terribile metafora che declina all’infanzia ciò che in fondo non è nuovo alla natura umana degli adulti, ad ogni latitudine e in ogni tempo (e a qualunque età, per l’appunto) se le condizioni di sofferenza, deprivazione e subalternità diventano tali da portare alla reazione. Assolutamente introvabile in qualsiasi supporto per l’home video, Ma come si può uccidere un bambino? è un film che può apprezzare non solo l’amante del thriller/horror di qualità, ma più in generale tutti coloro che vogliano conoscere le opere cinematografiche più significative dei Settanta. In questi casi il consiglio è il seguente: affidatevi alle ricerche in rete. Con pazienza e volontà – per chi è veramente interessato, vi assicuro che è sostenibile anche la versione originale non sottotitolata -, qualcosa troverete.
Federico Magi, luglio 2012.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Narciso Ibanez Serrador. Soggetto: tratto dal romanzo “El juego de los ninos” di Juan José Plans. Sceneggiatura: Luis Penfiel. Fotografia: José Luis Alcaine. Montaggio: Juan Serra, E. A. De Laysa. Interpreti principali: Prunella Ransome, Lewis Fiander, Miguel Narros, Antonio Iranzo, Marian Salgado, Fabian Conde, Maria Luisa Arias. Costumi: Carmen de la Casa. Musica: Valdo De Los Rios. Produzione: Penta films. Titolo Originale: “Quien puede matar a un nino”. Origine: Spagna, 1976. Durata: 111 minuti.
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