Dimenticatevi subito il titolo “all’italiana”, La promessa dell’assassino, davvero fuorviante, solita ottusità nostrana per invogliare alla visione gli spettatori di grana grossa. Dimenticatevi anche, ma non troppo, il Cronenberg disturbante e ipervisionario di Videodrome e La mosca, de Il Pasto Nudo e di Crash. Dimenticatevi di tante cose ma non scordatevi che l’ultimo Cronenberg è sempre Cronenberg, pur riaggiornato a temi e modalità espressive che si insinuano da differenti angolature sotto pelle rispetto al passato. Proprio come il Demone da cui tutto cominciò. Anche Eastern promises, come il precedente A History of violence, è un film che cela le sue metaformosi – un tempo manifeste, tanto da restare nell’immaginario come la cifra stilistica più riconoscibile del cinema del cineasta canadese – nei territori invisibili dell’anima, evidenziando solo su pelle (gli innumerevoli tatuaggi del protagonista) il marchio del cambiamento, della trasformazione. Dall’horror al noir, dall’onirico al realistico, il cinema di Cronenberg non solo non sembra risentirne ma si fortifica nel trovare una dimensione rappresentativa ancor più singolare e caratterizzante: le metamorfosi interiori sono decisamente più angoscianti, per certi versi più terrificanti di quelle esteriori.
Storia di mafia russa, di faide interne, in una Londra cupa e desolata scenario della morte di un’adolescente dell’est comunque in grado, prima di spirare, di dare alla luce una bambina. Vita e morte si intrecciano in pochi secondi, incontrando l’attenzione dell’ostetrica Anna (Naomi Watts), talmente colpita dall’evento tanto da mettersi in cerca dei parenti della sfortunata ragazza. L’unico indizio è un diario intimo e personale scritto in russo, lingua delle sue stesse origini ma sconosciuta ad Anna, che porta l’ostetrica in un ristorante che ben presto scoprirà essere la base di attività criminose. Il proprietario è un feroce boss della mafia russa, evocato più volte nel diario della ragazza per averla stuprata, ancora vergine, senza alcuna pietà. Di qui la ricerca, attraverso le parole contenute nel diario, delle tracce lasciate in vita da una delle tante ragazze venute dall’est a cercar fortuna in occidente, allettata da false promesse e inevitabilmente preda di coloro che sono pronti a sfruttarne la giovane innocenza. Sulla ribalta muovono più personaggi: il boss, suo figlio, l’ostetrica e Nikolai, un misterioso autista del clan mafioso pronto a fare il grande passo: attraverso il rituale delle stelle tatuate sul petto entrare nell’onorata società. Ma del freddo e spietato Nikolai sapremo poco o nulla, capiremo soltanto che ha un passato che lo ha segnato. E che questi segni, abilmente dissimulati, lo accompagnano nel presente come tasselli di un enigma esistenziale che edifica su due opposti: pietas e violenza.
Eastern promises, quindicesimo lungometraggio di uno dei più geniali artisti contemporanei della settima arte, prosegue sulla falsariga del nuovo corso cronenberghiano, quello che con A history of violence ha sposato il noir – come in precedenza aveva sposato l’horror metamorfico – per parlarci di altro, di equilibri-squilibri assai più sottili. Eastern promises e A history of violence si incontrano a metà strada, li dove sopraggiunge il dubbio, percorrendo però sentieri inversi: se il primo rivela la crudeltà di Viggo Mortensen andando in là con la pellicola, quest’ultimo l’attenua con lo scorrere dei minuti, fino a manifestare una natura inatessa. Detto di questo percorso affine, opposto e speculare, c’è da dire che Eastern promises è un film decisamente più compatto del precedente, meno diseguale e sempre perfettamente calibrato da un Cronenberg che attenua notevolmente la visività per trovare invece una misura sorprendente. L’abilità del regista canadese è quella di usare tutti gli elementi a disposizione – oltre a una regia che privilegia le inquadrature statiche, una fotografia e un montaggio perfettamente centrati, più un’intensa colonna sonora – per valorizzare una sceneggiatura interessante che, nelle sue mani ispirate, amplifica l’intrinseca suggestione narrativa.
I temi emergenti, come il dolore, l’abuso e la violenza, ma anche l’umana pietas, sono i tasselli esteriori di un’opera che scende come di consueto negli inferi dell’animo umano per esteriorizzare, attraverso le suggestioni visive, quegli spettri dell’inconscio altrimenti invisibili e inafferrabili. E qui sarebbe inutile fare il lungo elenco della cinematografia cronenberghiana a supporto, partendo dal Demone sotto la pelle fino ad arrivare a Spider, passando naturalmente per Videodrome, a mio modo di vedere la sua opera più inquietante, simbolica e rappresentativa, per lo meno fino a questo film. Fino a questo film perché non ho timore a valutare Eastern promises come uno dei primi veri capolavori di celluloide del terzo millennio (insieme a Big Fish di Tim Burton e a Mulholland Drive e Inland Empire di David Lynch), per tutta una serie di ragioni che cercherò brevemente di portarvi ad evidenza.
Dicevamo della misura inattesa, ma non solo, perché Cronenberg si concede senza strafare due tre scene delle sue, senza peraltro calcare la mano, e soprattutto costruisce una delle sequenze che resteranno come marchio indelebile della sua opera: una dinamica violenta ripresa frontalmente in cui Viggo Mortensen, sorpreso da due sicari armati di lame, all’interno di un bagno turco, lotta, nudo come mamma l’ha fatto, per salvarsi la vita. Difficile spiegare, è un raro caso in cui si può solo guardare per valutare, per capire il genio di un grande regista, il pathos unico che riesce a generare nello spettatore. Impossibile restituirvelo a parole: sconvolgente, scioccante. E a questo punto, anche chi detestava l’eccesso di immagini stomachevoli, marchiando negativamente l’artista a priori, non potrà che ricredersi perché Eastern promises non arriva soltanto alle budella – ammesso e non concesso che fosse solo e sempre questo, nel migliore dei casi, l’approdo del cinema del regista canadese – ma si insinua nell’anima e colpisce al cuore, attraverso personaggi che trasmettono la loro complessità senza bisogno di troppe parole. È il caso di Nikolai, interpretato da un Viggo Mortensen in stato di grazia, qui alla sua prova migliore, asciutto e misurato almeno quanto la regia di Cronenberg, per il quale non mi sorprenderebbe – pur considerando l’ostracismo di Hollywood nei confronti del cinema del regista di Toronto – una nomination agli Oscar 2008 oramai imminenti. Superlativa è la prova di Armin Mueller-Stahl, nei panni del boss mafioso, simbolo e personificazione del male assoluto, unica figura senza possibilità di redenzione, colui che evoca il vuoto morale, l’aridità, l’assenza di coscienza. Intensa la recitazione della bella Naomi Watts, e di livello anche quella dell’alterno francese Vincent Cassel, qui credibile e sapientemente valorizzato dal regista.
Pregio dell’opera è quello di procedere lenta e senza strappi nella prima parte, così disegnando il territorio emotivo in cui far deflagrare la diversa gamma di emozioni che puntuali arrivano nella seconda. Certo chi si aspetta ritmi serrati – e il titolo fuorviante è veramente dannoso, a questo proposito – potrà anche restar deluso, ma chi conosce e ama Cronenberg, chi è in cerca di grande cinema, non potrà che innamorarsi di Eastern promises, film sui segni del corpo che lascia profonde cicatrici nell’anima: la voce off della ragazza oramai deceduta attraversa e taglia come una lama la pellicola, si insinua più volte nella narrazione e restituisce un’angoscia pari all’indignazione per una vita in fiore spezzata con crudeltà. Ed è un Cronenberg insolitamente lirico quello che ci rivela la sua indignazione, che non concede una sola scena gratuita nemmeno al finale apparentemente consolatorio, facendo incontrare le labbra di Anna e Nikolai solo di sfuggita, nella notte buia, trovando – sorpresa delle sorprese – un epilogo commovente e privo d’artifici.
Il cineasta canadese, toccando il vertice della propria maturità espressiva, ci regala dunque un cinema dalla geometrica potenza, raccontando di promesse non mantenute che, è bene sgombrare definitivamente il campo da ogni possibile malinteso legato all’imperdonabile e fantasioso titolo italiota, non sono affatto quelle di un assassino, ma bensì quelle per un sogno infranto e fasullo, figlie del vuoto di una società occidentale sempre più opulenta e disumana. Quelle fatte alle giovani ragazze dell’est, spesso in arrivo in cerca di fortuna, trovando al contrario degrado e sfruttamento. Un buio fitto di dolore e malinconia, celato sotto la cenere di fuochi fatui tristemente consueti alle nostre megalopoli senz’anima.
Federico Magi, dicembre 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: David Cronenberg. Soggetto: John Wagner, Vince Locke. Sceneggiatura: Steve Knight. Direttore della fotografia: Peter Suschitzky. Montaggio: Ronald Sanders. Scenografia: Carol Spier. Costumi: Denise Cronenberg. Interpreti principali: Viggo Mortensen, Naomi Watts, Vincent Cassel, Armin Mueller-Stahl, Sinéad Cusack, Donald Sumpter, Josef Altin, Rada Jaffrey, Sarah-Jeanne Labrosse, Aleksander Mikic, Mina E. Mina, Michael Sarne, Jerzy Skolimowsky, Mia Soteriou, Tereza Srbova. Musica originale: Howard Shore. Produzione: Serendipity Point Films, BBC Films, Focus Features, Kudos Pictures, Scion Films. Titolo originale: “Eastern promises”. Origine: Canada / Gran Bretagna / Usa, 2007. Durata: 100 minuti.
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