La metafora del viaggio come fuga e/o ricerca è sempre stata molto letteraria. O meglio, in letteratura ha reso assai più che in altre arti. Che sia stato esteriore o interiore, ludico o esistenziale, senza ritorno o meno, il viaggio in letteratura ha sempre affascinato per quella forza immaginifica che porta con sé e che invita il lettore a fantasticare su luoghi, circostanze e volti, trasfigurati dal nostro intimo percepire, per ognuno differente. Il cinema ha avuto meno fortuna nello sviluppare il tema, spesso prendendolo a prestito proprio dalla letteratura; meno possibilità di insinuare quelle curiosità che attengono alla sfera del non visto, dell’immaginazione generatrice, penalizzata sovente proprio dalle immagini. Che siano eroi o loschi figuri, terre desolate o terre incantate, la rappresentazione di celluloide non può mai restituire appieno l’emozione marchiata a inchiostro su carta. Per il mio personale gusto non ve ne sono molti di film on the road memorabili, salvo alcuni assai inusuali per tema e protagonista, come ad esempio lo splendido Una storia vera di David Lynch. E forse proprio a Lynch, al lirismo doloroso di quell’opera strizza l’occhio Sean Penn, artista folle e dotato di una certa sensibilità, tornato dietro la macchina da presa a qualche anno dall’intenso e lancinante La promessa (film poco noto, ahi mé, con un Jack Nicholson straordinario), nello scegliere di rappresentare Nelle terre estreme, romanzo che porta con sé un tema non facilmente adattabile alla messa in scena cinematografica.
È la storia di Christopher McCandless, giovane brillante da poco laureato in scienze sociali e di famiglia oltremodo benestante, che sceglie di recidere tutti i legami col suo mondo opulento e borghese fino ad allora fastidiosamente vissuto, fatto di convenzioni e apparenza, di legami superficiali, falsità e aridità. A partire proprio dal contesto familiare, nonostante l’affetto per la sorella: due genitori logorati da una vita di menzogne e di – ai suoi occhi – vacue aspirazioni sociali. Christopher dona i suoi risparmi in beneficenza, distrugge la Social Security (chi ha vissuto e lavorato anche solo per pochi mesi negli Staes conosce l’importanza di questo pezzettino di carta dall’aspetto insignificante) e parte per un viaggio, in un primo momento una vera e propria fuga, per riscoprire i legami intimi e primordiali con la natura. Viaggerà per due anni circa, dall’estate del 1990 a quella del 1992, incontrando nel suo percorso personaggi che arricchiranno la sua sfera emotiva e ai quali Christopher, rinominatosi Alexander Supertramp, regalerà molto di sé, lasciando sempre un vuoto, non volendo contrarre legami definitivi. Il suo approdo ultimo immaginato è difatti l’Alaska, le terre selvagge e per un neofita improbe da esplorare, lì dove il mondo conosciuto, le ansie e le angosce dell’arida società sfuggita sono davvero lontanissime. E per Christopher / Alexander le terre estreme saranno, non per volontà ma per destino, l’ultimo domicilio conosciuto, allorché l’uomo, per quanto “amico” della natura, non sempre, a contatto con la sua forza e il suo infinito mistero, con i suoi improvvisi rovesci, può riuscire a dominarla o semplicemente a conviverci.
Una scelta coraggiosa quella di Sean Penn, non nuovo a esplorare universi controcorrente e sempre in modo radicale, evidentemente ideologico. Come in questo caso nel quale, attraverso un’opera letteraria che voleva mettere in scena da circa un decennio, l’attore e regista americano trasferisce le sue ansie, le sue speranze e il mai nascosto pessimismo nei confronti dell’evoluzione del mondo globale, Stati Uniti in primis. Penn, radicale e contestatore, evidenzia spesso, soprattutto nella prima parte, proprio per questo suo fervore ideale, una qualche ingenuità narrativa nella costruzione dei dialoghi, ma ha il pregio di dar vita a un’opera di due ore e mezza che coinvolge senza artifici e che dosa sapientemente i tempi emotivi, almeno quanto quelli narrativi. Se infatti ci liberiamo dal radicalismo a tratti ingenuo del regista possiamo scoprire un film emozionante, puro, cristallino, raccontato senza afflato epico ma senza far mai mancare il pathos narrativo, nonostante i molti momenti in solitaria del bravo Emile Hirsch. Ed è bello compartecipare, tappa dopo tappa, luogo dopo luogo, all’evoluzione del sé intimo, alla presa di coscienza di Alexander Supertramp, grazie all’ottima sceneggiatura dello stesso Penn, il quale divide il viaggio del suo protagonista in cinque capitoli che seguono tappe evolutive (adolescenza, età adulta, saggezza) che devono esser lette più in chiave animico-spirituale che corporea. Anche la regia è ispirata, nonostante sia a tratti didascalica, valorizzata dalla suggestiva fotografia di Gautier, ben centrata sia sulla natura che sui personaggi: alcune splendide panoramiche, comunque mai eccessivamente prolungate (come ad esempio lo sono quelle di un regista come Terrence Mallick, peraltro molto amato da Penn), restituiscono il senso della vastità, della solitudine e del contrasto tra i grigiori metropolitani e la bellezza incontaminata di deserti, fiumi, ghiacciai e vallate.
Natura madre ma anche matrigna, se ci si spinge oltre la soglia, se si vuol sfidare il limite umano fino a ciò che deve restare sconosciuto, o conoscibile soltanto se si è pronti veramente. Christopher / Alexander sfida se stesso oltre l’umano consentito e trova la morte, in totale solitudine e preda d’angosce e dubbi esistenziali che sembrano logorarlo. Fino ad una certezza, finale e certamente pacificatrice, ciò che ricongiunge, quasi in punto di morte, i motivi della partenza a quelli dell’arrivo, al senso del viaggio, l’approdo ultimo e irrinunciabile: l’uomo. Alexander ha viaggiato, ha sfidato fiumi e monti, terre innevate e deserti, ha immaginato che il vero motivo dell’esistere risiedesse nel trovare l’equilibrio perfetto tra il singolo e la natura, senza necessità di altro, men che mai degli uomini. Ecco che la morte imminente, invece, gli dona la consapevolezza che ogni gioia, ogni scoperta va condivisa per essere goduta appieno. I suoi occhi morenti allora sorridono, guardando in alto, essendo senza alcun dubbio felici per come avevano vissuto quella pur breve, più che mai intensa vita. Sopraggiunta la morte del suo protagonista, Sean Penn distanzia la macchina da presa dal dettaglio degli occhi ed esce dal bus abbandonato in cui giace il ragazzo per allontanarsi ancora di più, facendo una panoramica sulla natura circostante adesso cheta. Siamo in una sorta d’avamposto di un lontano paradiso al quale Penn, per quanto radicale e pessimista, sembra comunque credere, immaginando che Dio risieda proprio nell’alterità, come evidenziato nei dialoghi tra l’anziano ex soldato e Alexander, poco prima dell’approdo in Alaska.
Sean Penn si dimostra anche ottimo direttore d’attori e sapiente scopritore di talenti. La performance del giovane Emile Hirsch, chiamato a una prova durissima, sia fisica che emotiva, convince sotto tutti i punti di vista e fa ben sperare sulle sue future possibilità nel mondo di celluloide; brevi ma coinvolgenti gli ingressi in scena della Harden, di William Hurt, della Keener, di Vaughn e soprattutto di Hal Holbrook, senza dimenticare la sensualissima Kristen Stewart, nel ruolo d’una adolescente hippie che s’innamora di Alexander. A contribuire alla resa coinvolgente dell’opera vi è l’ottima colonna sonora di Eddie Vedder, vocalist dei Pearl Jam, che ci regala un album tematico scritto ad hoc, dove i motivi del viaggio dominano dalla prima all’ultima ballata. Un disco che rapisce già al primo ascolto, in stile tipicamente cantautoriale. Inoltre c’è l’omaggio alla letteratura, non solo nella scelta della struttura narrativa a capitoli e nell’evidenziare l’inclinazione letteraria del ragazzo (che scrive un vero e proprio diario di viaggio), ma soprattutto nei suggestivi rimandi a London, Tolstoj, Thoreau e Byron.
Il messaggio di fondo di Penn, ed immagino anche dell’opera di Krakauer, è che spesso bisogna sfuggire le comodità della nostra società opulenta per ritrovare se stessi e ricongiungersi a un sé primitivo che viva libero da sovrastrutture, in comunione col creato. Senza distanziarsi troppo dal sociale, dall’umana condivisione, dall’alterità senza la quale nulla avrebbe senso. Certo è un messaggio ideale, finanche ingenuo e soggetto a critiche egualmente radicali dall’estremo opposto dialettico: e perché tu, Penn, non getti via i tuoi averi, non stracci i tuoi ricchi contratti e segui le orme del tuo protagonista? Sarebbe ingeneroso nei suoi confronti metterla su questo piano dialettico, egualmente ideologico, senza considerare che Penn è un artista e che in quanto tale è un bene assolutizzi le sue convinzioni attraverso il medium di celluloide. Cos’è l’artista se non colui che ci restituisce l’assoluto attraverso la sua arte? E poi viaggiare è sempre una possibilità, soprattutto se si è giovani e forti: che siano terre selvagge o un qualsiasi altro luogo in cui potersi veramente (ri)trovare è forse l’unica via coerente nel cercare spiragli di luce tra le oscure nebulose del nostro tempo incerto.
Federico Magi, febbraio 2008.
Edizione esaminata e brevi note
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