Salvatores Gabriele

Come Dio comanda

Pubblicato il: 17 Dicembre 2008

A quasi quattro anni da Quo vadis, baby?, opera davvero trascurabile, Gabriele Salvatores torna nelle sale trasponendo un recente successo editoriale (Premio Strega 2007) di Niccolò Ammaniti, Come Dio comanda, e dunque ritrovando quelle atmosfere da fiaba iniziatica nera che lo avevano ispirato nel riuscito Io non ho paura. Io non ho paura è l’unico film davvero bello di Salvatores, dopo Mediterraneo (Oscar come miglior film straniero nel 1992), nonostante sia ispirato ad un libro certamente di successo, ma molto dozzinale, per non dire scadente nella qualità letteraria. Non ho elementi per dir lo stesso di Come Dio comanda, non avendolo letto, ma se tanto mi dà tanto, avendo spulciato altre opere dello scrittore romano, mi viene di conseguenza una riflessione: i libri di Ammaniti si prestano molto alla riduzione cinematografica, perché di idee ne hanno, pur facendo loro difetto la qualità nel modo di restituirle ad un lettore che vada in cerca di letteratura vera. Questa premessa per dire che l’ultimo lungometraggio di Salvatores non lascia indifferenti, pur portando con sé anche evidenti pecche e ingenuità, tra le quali la consueta indolenza (o incapacità?) nel tentativo di trovare il giusto rigore narrativo e il corretto equilibrio tra gli elementi che compongono un film. Quel che ritorna, però, dopo anni di film brutti o trascurabili, è la capacità di emozionare, trovando anche punte di lirismo, depurando il testo di Ammaniti (anche sceneggiatore, dunque in linea con le scelte del regista) per fotografare l’intenso e difficile rapporto tra un padre poco più che trentenne e un figlio adolescente confinati ai margini di un mondo già di per sé raccontato come marginale: il profondo Nord-Est.

Siamo in un paese immaginario del Nord-Est italiano (il film è stato girato in un luogo non identificato della regione Friuli Venezia Giulia). Qui vivono Rino Zena, operaio disoccupato e violento, e il figlio quattordicenne Cristiano. A loro si accompagna spesso Quattro Formaggi, un ritardato mentale che vive circondato da un presepe fatto di pupazzi raccolti in giro, vagheggiando infantili sogni erotici con una pornodiva di cui possiede una cassetta che vede a ripetizione. I tre vivono al margine del profondo Nord-Est, in case-baracche situate in zone di montagna semi desertiche, circondati dalla natura selvaggia. Rino Zena ha una visione del mondo ben precisa: è nazista, antisemita, odia gli extracomunitari perché, sottopagati, gli hanno sottratto i lavori di fatica, e di conseguenza disprezza anche i così detti “padroni” che li assumono. Crede nella Patria, nella violenza come modo di farsi rispettare, odia chi si droga e chi fa soprusi a Quattro Formaggi, del quale prende le difese ogni qualvolta le circostanze lo rendono necessario. Cerca di trasmettere al figlio i suoi valori, le sue convinzioni, esortandolo a difendersi contro i soprusi dei compagni di classe e a coltivare la cattiveria, senza la quale è impossibile sopravvivere nel loro mondo. Padre e figlio, pur in modo del tutto anticonvenzionale, hanno un legame affettivo fortissimo, viscerale, che viene messo alla prova ogni qualvolta l’assistente sociale sopraggiunge a verificare le loro pessime condizioni di vita – il rischio istituto è molto alto per un ragazzo come Cristiano. Legame che non viene scalfito nemmeno nel momento della disperazione e del dramma, quando Cristiano, in preda al dolore e a mille dubbi, soccorre il padre morente accanto al corpo violato e senza vita di una sua compagna di classe, in una notte fredda e piovosa, tipica di quei luoghi. Cosa è accaduto? Non vi svelo nulla, perché è l’evento nodale del film. Una pellicola che più si avvicina alla fine più stringe sul dolore dei volti, su primi piani di viva intensità. Non svelando nulla che non sia già palese allo spettatore, congedandosi su note liriche, dolorose, catartiche, regalando un’ultima scena di misurata, pudica emozione.

Immagine correlata

Opera controversa, questo Come Dio comanda, film che nella seconda parte riabilita un incipit (quasi tutto il primo tempo, se vogliamo dirla tutta) preoccupante perché zeppo di luoghi comuni e stereotipi davvero indigeribili sul Nord-Est e i suoi abitanti. E ciò non vale solo per la figura di Rino Zena la quale, avrete già inteso, è immaginata da Ammaniti e Salvatores ai limiti del ridicolo, del risibile e dello stucchevole tanto è caricaturale , ma anche – pur se meno evidentemente – per i personaggi di contorno, ragazzini compresi. È narrativamente poco tollerabile tutto ciò, o meglio sarebbe del tutto intollerabile se Salvatores e Ammaniti non avessero approfondito e posto l’accento, come evidentemente hanno fatto, sul rapporto d’amore padre figlio, fortificato anche dall’ “ideologia” (è d’obbligo virgolettare il termine, dopo la premessa che vi ho fatto) tanto vituperata in sede d’introduzione all’opera. E qui c’è da dire che, da un certo punto in poi, gli occhi del regista e dello scrittore non sono più giudicanti, si fanno vincere da questo legame potente e indissolubile che sopravvive a tutto e vince su tutto, cosi come tra padre e figlio dovrebbe sempre essere. Nella seconda parte Salvatores si lascia sopraffare dall’empatia padre-figlio e costruisce, di qui in poi, un film più centrato in cui le ridondanze estetiche e narrative della prima parte vengono progressivamente meno per favorire la dolorosa armonia che trova una vicenda in cui emergono violentemente i temi della morte e dell’amore.

È un film forte, doloroso, empatico, in alcuni frangenti fastidioso e sovente imperfetto. Una storia d’emarginazione che certamente destabilizza, nel bene e nel male. Una pellicola in cui pregi e difetti si mescolano e si intrecciano, creando spesso una rete disomogenea e inestricabile. E mi spiego: Salvatores è un ottimo regista, gira molto bene, ha delle buone intuizioni, usa il digitale e la camera a mano con grande padronanza e senso della messa in scena, abbandonandosi anche a lunghi piani sequenza che servono ad amplificare l’effetto desolazione. Si avvale di un eccelso apparato tecnico, ma ha il vizio di sovraccaricare per creare un eccesso di pathos che spesso lo porta fuori giri. E mi spiego ancora meglio: colonna sonora suggestiva ma invadente, suono pulito ma a volte ad effetto, fotografia davvero bella, fin troppo bella e quasi irreale se si aggiunge ad essa il sovraccarico sonoro e l’ingombrante colonna sonora. Tutti espedienti per cementare una narrazione spesso carente o sopra le righe, qui come altrove nella filmografia del regista milanese.

Risultati immagini per come dio comanda film

A render credibile una seconda parte meglio narrata, più dolorosa e misurata, nella quale si esplicitano senza ambiguità o orpelli ideologici  i motivi profondi dell’opera, vi è senza dubbio la straordinaria prova – e dico straordinaria a ragion veduta, a mio modesto parere – di Filippo Timi e dell’esordiente (a quanto ne so) Alvaro Caleca, che restituiscono l’intenso rapporto padre-figlio in modo limpido, naturale, sentito, toccante. Poche volte, come nel caso in questione, soprattutto parlando di cinema italiano recente, le interpretazioni da sole danno la possibilità di ribaltare o modellare profondamente il giudizio su un’opera palesemente diseguale e difficilmente valutabile, se non dopo attentissima analisi. Filippo Timi è davvero uno dei migliori attori italiani della nuova generazione di trentenni, mentre per quello che riguarda l’adolescente Caleca, provinato e scelto tra tanti coetanei, la sorpresa è davvero notevole. Troppo caricato, invece, mi è parso il solitamente bravo Germano, nei panni del minorato Quattro Formaggi, ruolo altrettanto essenziale per lo sviluppo della storia narrata. Fuori parte il comico De Luigi, nei panni dell’assistente sociale, molto più adatto alle commedie grossolane e alle sit-com, senza ombra di dubbio.

Salvatores è tornato con un’opera che farà discutere e che troverà il suo pubblico, ne sono convinto, dimostrandosi ancora troppo legato ad alcuni italici cliché nonostante il tentativo, ancora fuori misura, di costruire un cinema che si sprovincializzi, pur parlando di provincia. Deve inevitabilmente limare qualcosa dal punto di vista estetico, ma è il modo di raccontare le storie che proprio non convince. Come Dio comanda è, nonostante le numerose osservazioni critiche rivoltole, un’opera da vedere, se non altro per la splendida prova d’attori che ha contribuito a esaltare il tema principe della storia proposta: un tema fondamentale,  senza legge altra che non sia l’amore e senza tempo, come è quello del rapporto unico che intercorre tra un padre e suo figlio.

Federico Magi, dicembre 2008.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Gabriele Salvatores. Soggetto: tratto dal libro omonimo di Niccolò Ammaniti. Sceneggiatura: Niccolò Ammaniti, Antonio Mancini, Gabriele Salvatores. Direttore della fotografia: Italo Petriccione. Interpreti principali: Alvaro Caleca, Filippo Timi, Elio Germano, Fabio De Luigi, Angelica Leo, Vasco Mirandola, Alessandro Bressanello. Scenografia: Rita Rabassini. Costumi: Patrizia Chericoni, Florence Emir. Montaggio: Massimo Fiocchi. Musica originale: Mokadelic. Produzione: Maurizio Totti per Colorado Film, Rai Cinema con Friuli Venezia Giulia Film Commission. Origine: Italia, 2008. Durata: 103 minuti.