Non credo di essere particolarmente originale creando un parallelismo tra “La formula del professore” della scrittrice giapponese Yoko Ogawa del 2003 e il film “Memento” di Christopher Nolan del 2000. I protagonisti di entrambe le storie subiscono un brutto incidente e tutti e due appuntano sul corpo i dati fondamentali della propria esistenza. Il professore del romanzo della Ogawa utilizzando biglietti di carta e spillette da attaccare al suo abito liso e fuori moda; Leonard, il protagonista di “Memento”, ricorrendo ai tatuaggi che, ogni volta, gli rammentano gli episodi salienti della sua vita.
Il professore è un uomo di 64 anni dalla memoria a scadenza limitata: mantiene ricordi per soli ottanta minuti. L’incidente automobilistico del 1975, da cui si è generato il grave problema, lo ha costretto ad abbandonare il posto di docente universitario di Teoria dei numeri. Vive ora in una dependance a poca distanza da sua cognata, la vedova di suo fratello, ed ha bisogno che una governante si prenda cura di lui quotidianamente.
Ed è proprio lei, la governante e voce narrante del romanzo, ad introdurci nella casa e nel complesso universo mentale del professore: “Lavoravo già da qualche tempo come governante presso di lui, quando compresi che era una sua abitudine ricorrere ai numeri al posto delle parole quando si sentiva imbarazzato e non sapevo che cosa dire. Era il suo sistema per comunicare con il mondo esterno. I numeri erano la mano destra che tendeva verso gli altri per farsela stringere“. La donna si prende cura del professore il cui aspetto stanco, dimesso e perennemente sciatto lo fa apparire più anziano e eternamente trascurato.
Della memoria a breve termine dell’uomo non rimane alcuna traccia. Ogni volta che vede la governante le rivolge le stesse domande sulla sua data di nascita o sul numero di scarpe che porta alle quali lei cerca di rispondere come se le ascoltasse per la prima volta. Eppure il professore mantiene immutato il suo rapporto con i numeri e i loro affascinanti misteri. Rimane per ore in silenzio, chiuso nella sua stanza, fissando un punto davanti a sé alla ricerca di soluzioni. “In quella stanza aleggiava un’aria di pace e di tranquillità mai provata prima. Non era solo l’assenza di rumori, era il silenzio che riempiva l’animo del professore durante i suoi vagabondaggi nella foresta dei numeri. I capelli caduti e la muffa non contaminavano quel silenzio, anzi era come se lo ricoprissero di diversi strati. Ed era un silenzio trasparente, come un lago nascosto in fondo a una foresta“.
Dopo qualche tempo la governante, su suggerimento dell’anziano, porta con sé suo figlio. Da ragazza madre qual è, la governante ha abituato da subito il suo bambino di 10 anni a crescere in fretta e a divenire autonomo. Il professore lo accoglie e gli attribuisce il nome di Rūto, radice quadrata, per via della sua testa piatta. “Quando mio figlio apparve nell’ingresso con la cartella sulle spalle, il professore gli sorrise, spalancò le braccia e lo strinse al petto. Indicò il foglietto con la scritta… E SUO FIGLIO DI DIECI ANNI, senza darmi il tempo di spiegare come stessero le cose. Il suo era l’abbraccio di chi vuole proteggere con affetto la persona più debole che ha davanti a sé. Vedere da vicino qualcuno che abbracciava mio figlio in quel modo era una gioia per me”.
Tra il professore e il bambino nasce così un legame profondo e perfetto consolidato anche dall’infinita passione che i due nutrono per il baseball. La matematica invece, inizialmente astrusa per il piccolo, diviene un insegnamento quotidiano a cui non rinuncia. I numeri, d’altro canto, sono presenti in numerosi passi del romanzo. Similitudini, teoremi e piccole dimostrazioni in grado di incuriosire anche quel lettore che non ha mai avuto un buon rapporto con la matematica. Il fascino e la perfezione di una scoperta fatta di cifre seduce anche la governante che si diletta a riempire il retro dei volantini pubblicitari con sequenze di numeri alla ricerca di soluzioni apparentemente irraggiungibili. Così che i numeri si vestono di parole normali come “gemelli” o “amici” che sanno dare loro un’anima nuova, “una sfumatura romantica”.
“La formula del professore” è un romanzo matematico ma è soprattutto una storia, raccontata con estrema delicatezza, di solitudini che si somigliano e si raccolgono. Quello della Ogawa è un narrare puro, morbido e fluente che dosa perfettamente pochissimi ingredienti e nessun nome proprio, visto che Rūto è l’unico ad averne uno ed è solo un nomignolo. Non è facile fare letteratura usando anche i numeri, ma la scrittrice giapponese è riuscita in questo intento con maestria e talento, mantenendo un garbo straordinario e non cadendo mai nell’asciutta sterilità che ci si potrebbe aspettare dai numeri.
Da questo libro, nel 2006, è stato tratto un film diretto da Takashi Koizumi il cui titolo, in lingua inglese, è “The professor and his beloved equation“.
Edizione esaminata e brevi note
Yoko Ogawa, “La formula del professore”, Il Saggiatore, Milano, 2008. Traduzione di Mimma De Petra.
Follow Us