Se dovessi individuare una collocazione stilistica per questo libro e questo giovane scrittore francese sarebbe “letteratura hip hop”, ammesso che esista. Nella lingua scritta di Rachid Djaïdani c’è musica di quartiere, c’è un parlato meticcio fatto di frasi brevissime e dense, ricco di singolari neologismi e di infantili onomatopee, c’è un processo creativo che immagino non essere granché distante da quello di un rapper, rime baciate a parte. Per questo la storia diventa occasione per denunciare un malessere personale oltre che descrizione di un’esistenza e di una società con parecchie tare.
Siamo nel mondo dei giovani arabi francesi, i cosiddetti immigrati di seconda generazione, quelli come Mounir, il protagonista, o Rachid, lo scrittore. Quelli che qualcuno chiama anche “beur”. Ai beur parigini si associano, fin troppo semplicisticamente, le banlieux più povere e disagiate. In realtà Mounir vive sì nella periferia di Parigi, ma in una bella casa che i suoi genitori, venditori di frutta e verdura al mercato, hanno acquistato con notevoli sacrifici. Uno dei vari equivoci in cui incappano in molti. “Perché per i tipi dei quartieri insonni, non ero e non sono altro che un borghese del quartiere Bois-Fleuy. Ancora oggi mi puntano il dito contro, sono l’arabo venduto, il jet-set da abbattere. I miei genitori si sono sacrificati per pagarsi la casa, non mi sentirò mai in colpa per non aver perso i denti da latte in un palazzone-dormitorio del ghetto made in France. Perché tanto odio contro di me? Perché ho il culo tra due sedie“.
Per i buoni borghesi di città Mounir è una specie di selvaggio pericoloso, potenziale delinquente da tenere costantemente sotto controllo; per quelli della banlieu, invece, è solo un viziato figlio di papà. “Sono preso da due fuochi della stupidità umana e il mio giubbotto antiproiettile ha rescisso il contratto“.
“Ritratto di un ragazzo da buttare alle ortiche“, apparentemente, è un semplice viaggio sul treno R, Reu, R.E.R.. Mounir si sveglia ed esce da casa per andare in città, nello studio del suo spy, che è un modo un po’ più originale ed ironico per intendere lo psicanalista. E, proprio durante questo spostamento attraverso luoghi infuocati dalla calura estiva, il ragazzo e il suo flusso di coscienza ci raccontano chi è, cosa pensa e quali “mali” hanno infettato la sua giovane esistenza. Le esperienze vissute da Mounir non sono state quasi mai esaltanti. Fin da piccolo, però, ha imparato a inglobare dolore fisico senza fiatare: quando la sua circoncisione gli aveva creato un’infezione pericolosissima o quando, pensando di essere un eroe da cartone animato, si è praticamente amputato il pollice della mano destra.
L’anima di Mounir ha qualche guasto. Se ne accorgono i genitori e ne traggono dolore. E’ lui stesso a saperlo e a capire molti dei suoi demoni. “La mia solitudine mi sfibra, mi asfissia pur mantenendomi in vita. Non ho più fiducia in me, resto immobile davanti al casello. Non ho più la forza di combattere per far vedere che sono qui. La mia sete d’amore si è trasformata in fame di azzannare qualcosa di dovuto che non trovo. La barba non la smette di crescermi e la saggezza tuttavia non si è ancora manifestata. Sono toccato e mezzo matto, come dicono i camici bianchi. […] Il mio ombelico non ha mai smesso di sanguinare, così penso che sia da lì che uscirà il mio io“.
Mounir si vede sepolto in se stesso, paralizzato da una vita che lui lascia procedere senza fare granché. Eppure sogna, tra visioni ed incubi, di diventare davvero qualcosa o qualcuno di importante: “Mi piacerebbe essere legato al dorso di un fuoco d’artificio, diventare una star, abbagliare la notte durante il sonno e che l’esplosione facesse scoppiare tutte le orecchie“.
E’ facile affezionarsi a Mounir, è facile anche capirne la sofferenza perché è quella che, indipendentemente dalle origini, affligge moltissimi ragazzi. Un malessere lontano ed inafferrabile di cui non è facile individuare le radici o perché queste sono troppo nascoste ed irraggiungibili o perché sono troppe e somigliano alle colpe che abbiamo un po’ tutti.
Una lettura interessante e diversa che mi ha dato il piacere di conoscere Djaïdani, un altro giovane di talento partorito da quella Francia tanto snob e multietnica ma ancora un po’ confusa ed insofferente. Mi è rimasta, però, una sola perplessità. Perché un titolo originale come “Mon nerf“, così attinente, immediato e schietto, è stato tradotto dalla Giulio Perrone con un più complesso, lungo e, a mio avviso, meno pertinente “Ritratto di un ragazzo da buttare alle ortiche“?
Edizione esaminata e brevi note
Rachid Djaïdani è cresciuto a Grésillons à Carrières-sous-Poissy. Ha iniziato a lavorare a 15 anni come muratore in alcuni cantieri. Poi ha tentato la strada della boxe diventando persino campione regionale. Dal ring è passato al set: Djaïdani ha lavorato come attore in piccoli film e in alcune produzioni televisive. Ha girato un po’ il mondo recitando in alcune opere teatrali fino ad approdare alla narrativa. Il suo primo romanzo, uscito in Francia nel 1999, si intitola “Boumkoeur”. Nel 2004 ha pubblicato “Mon nerf” e nel 2007 “Viscéral”, editi in Italia da Giulio Perrone Editore rispettivamente con i titoli di “Ritratto di un ragazzo da buttare alle ortiche” (2011) e “Viscerale. Un grido dalle banlieu” (2009).
Rachid Djaïdani, “Ritratto di un ragazzo da buttare alle ortiche”, Giulio Perrone Editore, Roma, 2011. Traduzione di Ilaria Vitali.
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