L’edizione di “Manoscritto trovato a Saragozza” a cui faccio riferimento è quella pubblicata da Adelphi. E’ necessario specificarlo perché le vicende editoriali legate a questo testo sono piuttosto complesse. Mi limito a precisare che la versione scelta da Adelphi è quello stabilita e presentata da Roger Caillois il quale ha seguito il cosiddetto “testo di Pietroburgo”, l’unico di cui lo stesso Potocki abbia sorvegliato e seguito con certezza la stampa. Caillois, quindi, presenta le Dix Journée de la Vie d’Alphonse van Worden (giornate da 1 a 10) e la “giornata” 14 dell’opera completa. A cui si fanno seguito “Racconti tratti da Avadoro, storia spagnola”: Storia del terribile pellegrino Hervas e di suo padre, l’onnisciente empio; Storia del commendatore di Toralva; Storia di Leonora e della Duchessa d’Avila.
Nell’Avvertenza che apre il libro, Potocki ricorre ad un espediente letterario molto diffuso, ossia il ritrovamento del tutto accidentale da parte del narratore, un giovane ufficiale appartenente all’esercito francese, durante l’assedio della città di Saragozza, di un manoscritto in lingua spagnola che decide di tenere con sé perché intuisce che quel libro poteva essere divertente. Catturato dal nemico, l’ufficiale non solo riesce a non farsi requisire il testo, ma provvede alla sua trascrizione in francese grazie al cortese aiuto del capitano spagnolo che riconosce nel protagonista della vicenda un suo avo. Doppia finzione, in sostanza.
Tecnicamente il “Manoscritto trovato a Saragozza” è strutturato come un decamerone: racconti sviluppati e ripartiti in dieci giornate. Come il celeberrimo “Decameron” di Boccaccio. Il protagonista della storia è un giovane capitano delle guardie valloni, Alfonso, che deve compiere un viaggio fino a Madrid. Per raggiungere la città, però, è costretto ad attraversare la Sierra Morena abitata soltanto da contrabbandieri, banditi, e qualche vagabondo, che si diceva mangiassero i viaggiatori dopo averli assassinati.
Fin da subito, infatti, il viaggio di Alfonso attraverso questa terra si presenta particolarmente pericoloso e costellato da strane scomparse e misteriosi fenomeni. L’elemento magico accompagna tutte le storie narrate. Perché oltre a quella principale, la vicenda si compone di storie innestate le une alle altre, come una costante gemmazione. Il riferimento letterario più palese è quello a le “Mille e una notte”. Il viaggio del capitano vallone diventa quindi un’occasione narrativa perfetta che consente di incontrare personaggi nuovi e straordinari, di fare la conoscenza con creature ambigue che mettono alla prova la scaltrezza e la fede di Alfonso. Il giovane capitano, infatti, vede vacillare la propria fermezza a seguito delle sensuali tentazioni di Emina e Zibbedé, due bellissime sorelle islamiche la cui apparizione, allo scoccare della mezzanotte, conduce il protagonista in un mondo voluttuoso ed affascinante. Le donne sono angeli o demoni? Perché Alfonso, addormentatosi all’interno di una venta (locanda), si risveglia ai piedi di un patibolo a cui sono appesi, impiccati, i cadaveri di due ladri? Il confine tra sogno e realtà è perennemente sfumato e confuso. Qualcosa sfugge al protagonista ed a noi che ne seguiamo le traversie. Sulla strada di Alfonso, oltre alle due fanciulle musulmane che tentano di spacciarsi per sue cugine e che sembrano incarnare il peccato e la colpa, giungono anche personaggi che hanno il ruolo di guide morali, figure come quella dell’eremita o del cabalista, infatti, sembrano apparire per ricondurre Alfonso sulla retta via e per allontanarlo dalla perdizione o, addirittura, dalla conversione alla religione di Allah. Un motivo ricorrente è quello della confessione a cui però il giovane capitano cerca di sfuggire in ogni modo per un motivo molto semplice: ha dato la sua parola d’onore, seppur a figure equivoche, e nulla al mondo lo convincerebbe a venir meno alla promessa fatta. Né il buon eremita, né la bella Rebecca.
Nella vicenda principale e in tutte quelle che si aprono, l’una dentro o accanto all’altra, ci sono frequenti richiami di natura sensuale o erotica. Descrizioni piuttosto piccanti, soprattutto alla luce del fatto che stiamo parlando di un testo che risale alla primissima parte dell’800. Senza tralasciare anche il carattere decisamente etnografico di cui l’intera opera è caratterizzata e che è collegabile alla grande passione di Potocki per questo genere di disciplina al tempo ancora acerba e poco considerata.
La lettura del “Manoscritto trovato a Saragozza” riporta alla mente, in maniera innegabile, le avventure di Don Chisciotte, soprattutto per via dell’ambientazione in terra di Spagna e per le tematiche di natura cavalleresca. Un’altra grande opera che sembra fare da substrato a questa, è l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, in particolare per la componente onirica e magica. Ma mi è sembrato di poter rintracciare tra queste pagine anche temi più noir, provenienti dalla narrativa medievale e confluiti nella tradizione letteraria europea: spettri, cadaveri, assassini, fantasmi, mostri. Il fascino del macabro e dell’orrido che, tra l’altro, ricorre nella letteratura ottocentesca in maniera abbastanza frequente. Basti pensare ad Edgar Allan Poe, ma anche i più tardivi Lovercraft, Stevenson, Stoker, Shelley.
Un libro sorprendente, quello di Potocki, scritto in maniera elegante ed attenta. Nessuna sbavatura, nessun tentennamento. Un’accattivante favola che racchiude tante altre favole le quali, in qualche modo, si somigliano tutte. Una stessa situazione che si moltiplica come fosse riflessa all’infinito sugli specchi: un viaggiatore ed i suoi amori. Amori doppi: l’uomo è spesso l’amante di due donne contemporaneamente. Due sorelle islamiche o due sorelle e la loro madre.
Una lettura intrigante e diversa. Un viaggio in un mondo fantastico, nient’affatto noioso, nient’affatto banale.
Nel 1964, da questo romanzo, il regista polacco Wojciech Has ha tratto l’omonimo film. Il ruolo principale, quello di Alfonso, è interpretato da Zbigniew Cybulski.
Edizione esaminata e brevi note
Il conte Jan Potocki nasce a Pików, in Polonia, nel 1761. Uomo di grande cultura, noto per il suo carattere originale e stravagante. Grandissimo viaggiatore e appassionato di ricerca, Potocki è autore di diversi trattati sull’archeologia, la storia, l’antropologia. Oltre a testi per il teatro e vari racconti. Il suo unico romanzo è il “Manoscritto trovato a Saragozza” edito solo in parte nel 1805 e nel tempo oggetto di plagio. Il manoscritto originale è perduto. Solo nel 1958 l’opera viene riscoperta e pubblicata in lingua francese. Negli ultimi anni della sua vita il conte Potocki è vittima di attacchi di nevralgie, accessi di malinconia e depressione. Si suicida nel 1815 sparandosi una pallottola da lui preparata limando una fragola d’argento che sormontava la sua teiera.
Jan Potocki, “Manoscritto trovato a Saragozza”, Adelphi, Milano, 2007. Traduzione di Anna Devoto. Prefazione di Roger Caillois.
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