Rudolph Alan

La colazione dei campioni

Pubblicato il: 18 Novembre 2006

La delirante vicenda si apre a Midland City, ben poco ridente cittadina della provincia americana, dove vive Dwayne Hoover (Bruce Willis), proprietario di un grande autosalone: è un uomo d’affari, ricchissimo, famosissimo per i numerosi spot televisivi di cui è protagonista; ma non tutto pare andare per il verso giusto. Al suo primo apparire, all’interno della sua lussuosa dimora, lo vediamo ficcarsi una pistola in gola in procinto di farsi un gargarismo di piombo se non lo interrompesse la cameriera nell’annunciare “la Colazione dei Campioni”, il “breakfast dei vincenti”. In preda ad allucinazioni e paranoie, Dwayne è circondato da improbabili ed esagitati colleghi oltre che da una sciagurata famiglia. La moglie Celia (Barbara Hershey) è infelice, teledipendente e perennemente impasticcata, mentre l’ambiguo e femmineo figlio adolescente Bunny (Lukas Hass) fa il cantante in un piano bar, vestito da coniglietto. Harry Le Sabre (Nick Nolte), braccio destro di Dwayne, che sotto il doppiopetto ama indossare lingerie femminile rossa, anche lui si muove isterico, terrorizzato che il suo vizietto per il travestitismo sia scoperto (Nolte, fisico da giocatore di football, con addosso calze nere e slip rossi è una visione agghiacciante). Francine (Glenne Headly) è la segretaria giuliva di Hoover, oltre che sua amante: la donna gli rivela che Harry si è accorto che qualcosa in lui non va ed è molto preoccupato; dopo una fallimentare spiegazione fra i due uomini, Dwayne e la segretaria, sempre più sconcertata, vanno in un hotel, dove l’ingroppata sortirà effetti tutt’altro che positivi: ancora allucinazioni e paranoie mentre nel frattempo la moglie Celia si allontana delirante dalla casa coniugale.

Contemporaneamente si snoda la vicenda di Kilgore Trout (Albert Finney), uno scrittore fallito in condizioni simil Bukowsy, che ha pubblicato racconti porno fantasy in riviste hard: invitato a Midland City da un improbabile miliardario per presenziare al Festival delle Arti della città, pare sia giunto il momento del tanto atteso riscatto. Arrivato a destinazione con mezzi di fortuna e in condizioni a dir poco pietose, Kilgore, dopo un surreale colloquio con l’inquietante mecenate, una sera incontra Dwayne: lo scambia per un giornalista ed inizia a parlare con lui del destino e della felicità.

Dwayne si esalta, si comporta come un matto (non è una novità) credendo di aver scoperto Dio sceso in terra. Sarà al termine di questo oscuro delirio che Dwayne tornerà più o meno alla ragione e, prima di venire arrestato per l’aggressione del proprietario del bar, potrà riconciliarsi con moglie e figlio. L’ultima scena, in un trapasso dal grottesco al favolistico, vede protagonista Kilgore Trout (un Albert Finney sacrificato per tutto il film rispetto al folle personaggio di Willis): il malconcio scrittore, tentando di infrangere uno specchio, si immerge in un’altra dimensione, nel mondo felice dei suoi sogni e delle sue creazioni letterarie in una sorta di fusione con la sua opera. All’esterno, nel “mondo reale” (virgolette più che mai d’obbligo), rimangono i cartelloni pubblicitari: “Entrate adesso. Non è mai troppo tardi”. Questa a grandi linee la trama, compresa  dopo frequenti riavvolgimenti del VHS. Delle due l’una: o la visione del film ha coinciso con un momento, spero temporaneo, di mio appannamento mentale o effettivamente “La colazione dei campioni”, nel suo intento di rappresentare su grande schermo deliri introspettivi e proiezioni di una mente disturbata, ha dato luogo ad un risultato non del tutto intelligibile.

Era prevedibile un’opera contrastante, se non dubbia, nel trasporre sul grande schermo un romanzo di Kurt Vonnegut, l’autore di Macello n. 5, “il cantore della distruzione del Sogno Americano”, scrittore noto per i suoi racconti visionari, deliranti, caratterizzati da uno sperimentalismo di non sempre facile lettura. Il regista e sceneggiatore Alan Rudolph, forse proprio in virtù di questa difficoltà, ha voluto tentare l’impresa nonostante in un primo momento il progetto avesse solleticato l’interesse di Altman, cineasta forse artisticamente più in sintonia con l’approccio grottesco e l’allucinato proprio di Vonnegut.
Prodotto nel 1998 e presentato al Festival di Berlino, “La Colazione dei Campioni” è un viaggio nella follia, in un Sogno Americano che diventa Incubo Americano, con il volto di Willis, cristallizzato in un falso e disperato sorriso, circondato da una fauna di esagitati ed isterici personaggi, assediati gli uni dal proprio fallimento e gli altri dal proprio successo. Un film che al di là della evidente rappresentazione grottesca di un sistema di vita ammorbato da un’onnipresente televisione, di un consumismo che impoverisce l’essere umano e che si immola al Dio Denaro, e pur evitando di scadere in una facile farsaccia, non pare aver soddisfatto appieno le ambizioni del regista e del protagonista.

Un film fortemente voluto da Willis, qui anche in veste di produttore, che ambiva a non rimanere impantanato nelle vesti di John McClane; una prova di attore di tutto rispetto, ma che non ha entusiasmato né i critici più severi, poco indulgenti con le smorfie da pazzo riservate al personaggio di Hoover, né i fan più granitici, poco interessati al nuovo Bruce Willis in doppio petto e riporto. Di lui il grande pubblico ha sicuramente più familiare il look canottiera con schizzetto di sangue.

“La colazione dei campioni”, in questo suo azzardato sperimentalismo, in questo vortice di suoni e rumori, a volte poco comprensibili, pur con tutte le perplessità che ne derivano, ha il pregio di non scadere in una operazione da b – movie, grazie al virtuosismo tecnico del regista e all’abilità dei suoi collaboratori, sia dal versante attori che quello più propriamente tecnico.

Lo può capire anche lo spettatore meno scafato grazie ad adeguati confronti con del trash d.o.c.g. Esempio che mi sorge spontaneo (chissà poi perché):  un “Cattivi Pierrot” del nostro inverecondo Campanella, tempo addietro è stato lanciato con velleità “sperimentali”, salvo gli evidenti risultati da softcore di zerie Z; anche lì scene allucinate, esagitate e vagamente incomprensibili: soltanto che alla fine quello rimaneva più impresso, e che forse più interessava  anche al regista, erano le zinne di Milly D’Abbraccio. La nostra “Colazione” ci potrà pure lasciare spiazzati, annoiati, ma almeno il cinefilo si potrà consolare grazie alla fotografia di Elliot Davis, le musiche ipnotiche di Mark Isham con “Stranger in Paradise” come leit motiv: aspetti di indubbia professionalità che riconcilieranno anche lo spettatore meno attento nei confronti di un film di difficile definizione (commedia, dramma?). Un giudizio complessivo? Difficile, molto difficile. Probabile gli aggettivi più adeguati siano due: professionale ed irrisolto.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Alan Rudolph.

Sceneggiatura: Alan Rudolph, da un romanzo di  Kurt Vonnegut jr.

Direttore della fotografia: Elliot Davis.

Montaggio: Suzy Elmiger, Susan Weiler.

Interpreti: Bruce Willis, Albert Finney, Nick Nolte, Barbara Hershey, Glenne Headly, Lukas Haas, Diane Willson Dick, Omar Epps, Vicki Lewis, Buck Henry, Ken Campbell, Will Patton, Alison Eastwood, Michael Jai White, Michael Duncan, Kurt Vonnegut Jr.

Musica originale: Martin Denny, Mark Isham.

Produzione: David Blocker, Sandra Tomita, David Willis.

Origine: Usa, 1999.

Durata: 110 minuti.

Recensione già pubblicata su ciao.it l’8 dicembre 2004, poi su lankelot il 18/12/2006  e qui parzialmente modificata