Vallejo César

Favola selvaggia

Pubblicato il: 10 Gennaio 2015

“Al riguardo manteneva con lei il più ermetico e rigoroso silenzio. E così facendo alimentava nella propria mente, come un’immensa tenia occulta, una radice nervosa la cui energia era risalita dalla linfa sterile di un vetro di malagurio” (pag. 26). Poche righe dal racconto lungo “Favola selvaggia” già possono aiutarci ad inquadrare il mondo poetico del peruviano César Vallejo, autore tra i più rappresentativi della letteratura ispano-americana del secolo scorso e che la Arcoiris edizioni ha opportunamente pubblicato nella collana “Gli eccentrici”. Il “vetro del malagurio”, apparente origine di una situazione a dir poco allucinata, è in realtà uno specchio che si trova nella casa di Balta Espinar e di sua moglie Adelaida. La coppia protagonista di “Favola selvaggia” abita in una modesta fattoria alle pendici delle Ande e, prima di quella mattina, di cui leggiamo subito nella prima pagina del racconto, possiamo immaginare una loro vita coniugale tranquilla, malgrado il tenore di vita modesto e all’insegna di un duro lavoro.

Poi un episodio inaspettato, in teoria banale, che però cambia tutto: appena destato Balta si guarda allo specchio e gli sembra che dietro di lui ci sia un’ombra. Il gesto di voltarsi e il vetro, col suo reale riflesso, si frantuma. Un presagio che si accompagna ad altri episodi che il sentire comune intende come malefici e angosciosi, come il “canto spaurito e lagnoso” di una gallina (“quando canta una gallina, sventura, sventura…”), e nuovamente la mente di Balta che viene stravolta dall’idea di aver visto nuovamente l’ombra, questa volta dietro di lui presso uno stagno. Prima l’idea più rassicurante che tutto sia frutto dello scherzo della moglie e poi il tarlo della gelosia, ovvero l’idea che un possibile amante della moglie si nasconda al suo apparire. Sembrano proprio i sintomi della Sindrome di Otello, ma, pur maltrattando la consorte, l’effetto dell’ossessione si ripercuote principalmente sullo stesso marito, sempre più isolato, paranoico e ormai destinato ad una brutta fine.

Una corsa verso l’abisso (nel vero senso della parola, come potrà scoprire il lettore), che si nutre di una sorta di logica pervertita in allucinazione. Proprio per questo motivo il linguaggio di Vallejo, sobrio, scarno, misurato e nel contempo ricco di aggettivazione e di immagini della natura circostante, appare perfettamente funzionale ad una storia angosciosa di sospetto alimentato dalle superstizioni; che poi diventa esplicito racconto di una lucida follia. Da questo punto di vista possiamo citare la professoressa Silvana Serafin, autrice di un’ampia ed approfondita postfazione, “César Vallejo, cantore della negazione”: “Logica come maschera della pazzia è il messaggio intrinseco di questa allucinante storia” (pag. 64). Ed inoltre, nel cogliere anche l’aspetto stilistico, viene evidenziata “una coerenza perfetta tra il poeta Vallejo e il narratore Vallejo”, tanto che “l’intero libro di ‘Favola selvaggia’, feconda fusione di influenze indigene e spagnole, di surrealismo, di realismo magico, di pittura e di drammi, vive e si sviluppa nell’opposizione come principio di struttura. I due elementi diversi sono, tuttavia, legati in modo tale da essere imprescindibili l’uno dall’altro, fino a costituire un’unità nel tempo mitologico” (pag. 67). Anche nella prosa di “Favola selvaggia” il lettore potrà quindi cogliere la particolare predisposizione di Vallejo nell’affrontare tematiche di disperazione ed angoscia: un esempio lampante di come la pagina scritta possa riprodurre le reali ossessioni e fantasmi di un autore che ha realmente conosciuto la sofferenza dell’essere meticcio e l’emarginazione del mestiere intellettuale. Ci sembrano quindi ancora attuali le parole di Jean Franco che leggiamo in “Introduzione alla letteratura ispano-americana (Mursia, 1972), anche in relazione alla ricordata coerenza tra poesia e narrazione: [ndr: in Vallejo troviamo] “nuove tecniche per andare incontro ai bisogni di una poesia dell’uomo moderno. Ma la poesia che ne viene fuori non è cerebrale, in quanto è l’angoscia stessa di Vallejo, la sua “extraña y necessaria verdad [la sua estranea e necessaria verità] come un critico [ndr: Fernández Retamar] l’ha definita, a rappresentare la potente molla da cui tutti i componimenti poetici hanno origine” (pag. 334).

 

Edizione esaminata e brevi note

César Vallejo, (Santiago de Chuco, 16 marzo 1892 – Parigi, 15 aprile 1938) è stato un poeta peruviano. Interruppe varie volte gli studi per lavorare in una piantagione di canna da zucchero. Vallejo si laureò in lettere nel 1915.Più tardi si trasferì a Lima, dove lavorò come insegnante e si avvicinò ai membri della sinistra intellettuale. Dopo una serie di difficoltà riuscì a pubblicare il suo primo libro di poesie Los heraldos negros. Dopo aver pubblicato Trilce nel 1923 e perso il posto di insegnante a Lima, il poeta emigrò in Europa, dove visse fino alla sua morte avvenuta a Parigi nel 1938.

César Vallejo,“ Favola selvaggia”, Arcoiris edizioni (collana Gli eccentrici), Salerno 2014, pag. 76. Traduzione di Raul Schenardi. Postfazione di Silvana Serafin.

Luca Menichetti. Lankelot, gennaio 2015