Wenders Wim

Perfect days

Pubblicato il: 21 Gennaio 2024

È tutto piccolo e immenso nell’ultimo film di Wim Wenders, a partire dal formato in quattro terzi, che in alcuni momenti si restringe addirittura alle misure dell’inquadratura da cellulare, fino ad arrivare all’immagine dello specchietto che il protagonista, Hirayama, usa per intercettare i residui di sporcizia nascosti negli anfratti dei wc nelle toilette pubbliche di Tokyo.

È la vita del protagonista che è piccola e immensa al tempo stesso, un ossimoro eccezionalmente interpretato da Kôji Yakusho, non a caso premiato come miglior attore al Festival di Cannes 2023.

Wenders attinge al suo antico amore per il genere documentario e dà vita a un gioiello di film sulla perfezione, sulla dignità, sulla pazienza. Sulla luce, mi viene da dire. Un minimalismo poetico permea le giornate perfette del protagonista, un sessantenne giapponese che ogni giorno si dedica con meticolosa attenzione e amore al suo lavoro: pulire i bagni pubblici del quartiere di Shibuya, a Tokyo, la sua città. E Tokyo la si respira a fondo in questo film, sembra di sentirne l’odore della pioggia, la carezza della luna pallida nelle notti della stagione tiepida, il sapore delle alghe nel ramen della cena, consumata sempre nello stesso minuscolo locale da street food, dove il gestore ogni sera saluta il protagonista ripetendo le stesse, confortanti, parole quel che ci vuole dopo una faticosa giornata” porgendogli una bibita in un bicchiere con ghiaccio. Oppure, nelle serate delle giornate di riposo settimanale, nel ristorante gestito da Mama, una signora attratta dal protagonista e che non ne fa mistero, lusingandolo con pacati sorrisi, piatti particolari e cantando una meravigliosa versione di The house of the Rising Sun, cantata formalmente per i consueti avventori che la incitano a farlo, ma in realtà solo per Hirayama, che chiude gli occhi e si lascia cullare. Hirayama è felice nel suo “qui e ora”, non chiede altro, o ha smesso di chiederlo, chissà, dal momento che si intuisce la presenza del dolore nel suo passato, come in quello di tutti. Lo si intravede nel suo rapporto con il padre, con una vita precedente dalla quale è fuggito, rinunciando a molto ma guadagnando il saper stare nel suo presente fatto di silenzio, di pulizia, di ordine, di cose piccole ma essenziali al sorriso.

È un metodico Hirayama, anzi, è il metodo: da applicare ogni giorno, fatto di un’attenta pulizia mattutina del proprio viso e una cura meticolosa per i propri baffi, seguita dall’innaffiatura alla sua mini foresta in vaso, costruita con pazienza recuperando i germogli nei parchi della città che altrimenti sarebbero stati calpestati; il tramezzino preferito all’ora di pranzo, consumato all’ombra del gigantesco albero, il suo “amico” come lo definisce sua nipote quando, in piena fuga ribelle dalla madre, sorella di Hirayama, si piazza nella vita dello zio per tre giorni, sconvolgendo, ma mai troppo, la sua serenità e che impara ad ammirare con lui il Komorebi, il luccichio della luce che passa attraverso le foglie del grande albero, fotografandolo, lei con il suo smartphone e lui con la sua macchina fotografica analogica i cui rullini necessitano di sviluppo, attesa, e archiviazione manuale (e maniacale).

Già, perché Hirayama non è solo il metodo, ma è il metodo analogico. A partire dalla musica, la sua musica, ascoltata dal mangianastri stereo in auto durante i viaggi casa-lavoro e da un vecchio stereo portatile nel suo monolocale, privo di televisione, che dispensano perle in continuazione: Velvet Underground, Patti Smith, Nina Simone, Otis Redding, Rolling Stones e, ovviamente, Lou Reed con la sua Perfect Day

I Perfect days di Hirayama si succedono uno dopo l’altro alternando pochi, divertenti imprevisti, un pianto convulso dopo un incontro che chiama il ricordo di un dolore lontano e uno, un solo scatto di rabbia al telefono col datore di lavoro. Ma terminano sempre con il conforto e la calma dei rituali: la pulizia personale al sentō, il bagno pubblico a pagamento dove ci si lava in mezzo al vapore stando seduti su un piccolo sgabello posizionato di fronte a una doccetta bassa e poi ci si immerge nella vasca comune, secondo il rituale del furo e si socializza: poco e in maniera molto discreta e “privata”, ma questo è quanto basta al protagonista, amante dei sorrisi silenziosi. Poi, tornato a casa, Hirayama si sdraia sul suo tatami e legge un libro (Faulkner, Patricia Highsmith e la “sottovalutata” Aya Koda, come gli fa notare la sua libraia di fiducia, altra presenza femminile sorridente e competente) fino a quando gli occhi non si chiudono per portarlo nel sonno dei giusti, condito ogni notte da sogni semplici, come quelli dei bambini stanchi, qui rappresentati in bianco e nero e sfumati, che richiamano episodi della giornata appena trascorsa e dai quali si capisce come ogni giorno, all’apparenza uguale a tutti gli altri, sia in realtà un giorno diverso perché, come dice Hirayama giocando con le ombre assieme a un coetaneo conosciuto per caso in un momento di fragilità di entrambi: “Se le cose non cambiassero mai sarebbe assurdo”.

Edizione esaminata e brevi note

Perfect days. Regia di Wim Wenders; sceneggiatura: Wim Wenders, Takuma Takasaki; con Kôji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano, Aoi Yamada, Yumi Asô. Genere: Drammatico, – Giappone, Germania, 2023, durata 123 minuti.