Ionesco Eugène

Il solitario

Pubblicato il: 30 Marzo 2016

Eugène Ionesco non amava l’esistenzialismo di Sartre e neppure lo stesso filosofo, che definì “re dei cretini” e che rifiutò di incontrare mentre era in vita. Eppure nel 1973 il drammaturgo rumeno, indicato come il padre del Teatro dell’assurdo con Samuel Beckett e Arthur Adamov, pubblicò il suo unico romanzo, dal titolo “Il solitario”, che ha molti punti in comune con “La Nausea” di Jean-Paul Sartre. Gian Luca Spadoni nella postfazione all’edizione italiana (Gaffi, 2007) si spinge a indicare una condivisibile trilogia costituita da “Lo straniero” di Albert Camus, il già citato romanzo del filosofo francese e “Il solitario” di Ionesco. Condivisibile perché tutti e tre i libri affrontano il tema del mondo a prescindere dall’assenza di un dio, un cosmo dove esistere non ha alcun senso: per Sartre dunque è doveroso agire per eliminare le ingiustizie sociali, Camus trasforma l’atto omicida in una variante qualsiasi dell’apatia biografica degli individui, mentre Ionesco…

Ionesco sceglie volutamente un protagonista mediocre, un pigro impiegato senza ideologie, con la paura del buio e vittima di continui attacchi di panico. Un giorno, nel mezzo del cammin di nostra vita, a 35 anni, gli piove dal cielo un’eredità: un vecchio zio d’America – forse l’ultimo rimasto – lo rende miliardario. Può permettersi di vivere di rendita. Proprio come, a ben pensarci, il protagonista della Nausea”; ma a differenza di questo, non è un intellettuale. Tuttavia sembra più sincero visto che ammette: “Mi sentii borghese. E infelice di sentirmi borghese, come mi fossi macchiato di una colpa” (pag. 43).
“La Nausea” terminava con l’apertura a una vita da mantenuto però con la promessa di un impegno, la rivoluzione attraverso la letteratura. “Il solitario” inizia con la vita da mantenuto ma prosegue con l’esplosione di un’angoscia dovuta al non aver più nulla da fare. Non resta che pensare. E un cervello troppo sensibile quando libero di pensare senza il filtro della cultura è un treno senza conducente. Ogni tanto si rimprovera: “Non bisogna filosofeggiare quando non si è grandi filosofi” (pag. 28). Ma non può farne a meno. La paura del vuoto, della morte, del non senso è troppo forte perché non è un’invenzione dei pigri. Il senso dell’esistenza è l’interrogativo più grande e solo tenendo la mente occupata si allontana il problema. Lo si consola con la speranza (le sovrastrutture simboliche, le religioni, le ideologie) ma al primo dubbio, alla prima incrinatura, tutto crolla.
“Mi ricordo di quella folla formicolante che mi rassicurava malgrado la semi-oscurità della via male illuminata. La maggior parte di quelle figure, di quegli esseri non esistono più. Mi ricordo di una via di fantasmi. Null’altro che fantasmi. Sentii che il cuore mi si chiudeva e l’angoscia tornava. Avevo paura. Di nulla. Di tutto” (pag. 46). Il protagonista è solo, i suoi comportamenti allontanano le donne. La cameriera del bistrot dove ogni giorno, stesso tavolo, va a ubriacarsi e mangiare, dopo un breve periodo di convivenza, cede: le sue ossessioni non sono tollerabili. Non è l’apatia di Camus a renderlo inavvicinabile, o la glacialità della relazione amorosa tra l’alter ego di Sartre e la sua nemica/amante Anny, Ionesco lo dipinge con un rapporto esasperato e via via allucinatorio verso il linguaggio: “Spesso, mi bastava ripetere un po’ di volte in fretta la parola cavallo o tavolo fino al momento in cui la nozione si svuotava del suo contenuto, e ogni significato scompariva” (pag. 49). Bucare l’apparenza, interpretare l’esistente, l’ostinata tendenza a capire e comprendere quel che lo circonda si rivela una condanna all’autodistruzione. Essere felici è non sapere. Non porsi domande. Sotto una dittatura esistenziale dove chi combatte l’omertà è destinato all’individualismo, all’esclusione, alla follia.
Per il protagonista solitario questo desiderio di capire e sapere non è un vezzo, ma una necessità. Quando parla per telefono con lo studente, dotto e in pace con se stesso, egli non risparmia una critica agli intellettuali, troppo aridi per leggere la sua sincerità: “A lei basta sapere che questi problemi sono stati posti, chi li ha posti, che ci sono tanti trattati e libri che hanno affrontato questi soggetti, per non doverseli più porre, per metterli in disparte, in qualche angolo della sua memoria. Sì, per lei non è altro che cultura. La disperazione è stata studiata, è stata trasformata in letteratura, in opere d’arte. Ma questo non mi aiuta. È cultura, solo cultura. Buon per lei, se con la cultura ha potuto scongiurare il dramma dell’uomo, la tragedia” (pag. 80). Sembra quasi un urlo disperato contro lo stesso Ionesco.
Il romanzo non ha capitoli, è un fiume ininterrotto di parole in prima persona, un monologo che vanta due stili: una prima parte descrittiva, come ne “Lo straniero”, con elenchi di azioni continue, quasi dettate da un regista teatrale, indicazioni specifiche di movimenti, osservazioni, mosse dei personaggi; una seconda dove il racconto si lascia andare al più autentico assurdo, graffiante e decisamente sfrontato per l’epoca. Siamo nel 1973 e Ionesco non ha paura di denunciare i toni brigatisti dei suoi rivoluzionari, giungendo a dipingere un’autentica guerra civile con massacri di fazioni spesso della stessa ala politica. E la violenza è l’unica cosa che lo risveglia dal torpore, la sua insensatezza, le stragi rosse e nere, la violenza dei poliziotti verso una madre davanti al cadavere del figlio, i cervelli che si spargono sulle piazze insanguinate, la follia dei proiettili vaganti e i tappeti di morti nel quartiere. La violenza, lo dice apertamente, è il loro sentirsi vivi, come l’alcol che dà un senso alle sue giornate tutte uguali nel bristot.
La follia della seconda parte ricorda l’opera teatrale “Delirio a due” dove una coppia non usciva di casa per la guerra in corso ma non sembrava turbarsi più di tanto. Il solitario invece è costretto a rinchiudersi in casa, affogato nel tempo che passa, senza mai essere un vero attore delle vicende. Egli è semmai uno “spettatore sul palcoscenico tra gli attori” (pag. 58), un mortale che consuma la sua vita dimenticandola lentamente e nessuno lo può aiutare per davvero.
Ma se nel finale “dal mucchio di spazzatura del cortile, trasformato in erba, era spuntato un albero” (pag. 145) e dall’armadio spalancato davanti al letto è sbocciato un giardino, allora la speranza non è completamente svanita. Nel dubbio che, in un futuro nebuloso, un senso comprensibile possa finalmente manifestarsi.

Edizione esaminata e brevi note

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Eugène Ionesco (1909-1994) drammaturgo e scrittore rumeno. È considerato con Samuel Beckett e Arthur Adamov il padre del Teatro dell’assurdo.
Eugène Ionesco, “Il solitario”, Gaffi editore, Roma 2007. Postfazione di Gian Luca Spadoni.
Luca Martello, 19 febbraio 2012.