Forse nessuno avrebbe potuto immaginare, oltre vent’anni fa, che lo stambecco bianco sarebbe apparso davvero. Un maschio bianco, albino totale. Apparso proprio lì, la scorsa estate, nel paradiso in cui Francesco Nuti ha ambientato la sua pellicola più lirica, intima e malinconica, ai piedi del Monte Rosa. Vent’anni e più son passati da Tutta colpa del Paradiso, secondo lungometraggio diretto dal regista toscano e apice rappresentativo del suo originale modo di far cinema. Dopo Casablanca Casablanca, ideale seguito di Io, Chiara e lo Scuro, diretto da Ponzi, Nuti decide di puntare su una storia che assume, sin dal principio, le fattezze di una fiaba nella quale rielaborare e render più compiute alcune scelte tematiche presenti nelle opere che l’avevano visto protagonista. La location scelta, gli incantati parchi della Valle D’Aosta, sono l’ideale cornice di una vicenda che si snoda su un motivo essenziale: il recupero di un ruolo genitoriale mai realmente esercitato.
Casamonica Romeo, ritornato in libertà dopo aver scontato cinque anni di carcere per rapina a mano armata, ritrova la sua abitazione abbattuta e il contesto cittadino mutato radicalmente. Non ha più legami di sorta, l’ex moglie è tornata nella natia Germania orientale e la vita un tempo vissuta non esiste più. Ma c’è qualcosa, qualcuno in particolare che rianima le motivazioni di Romeo: un figlio, lasciato suo malgrado ancora neonato, affidato a una coppia benestante in grado di mantenerlo. L’incontro con l’assistente sociale che si è occupata dell’affido è traumatico per l’ex galeotto, ritenuto oramai un rifiuto della società e per la legge non avente diritto di saper più nulla della vita del figlio. E allora Romeo, con un abile stratagemma, riesce a carpire l’informazione tanto utile: Lorenzo, oramai bimbo di sei anni, vive con la coppia affidataria in un rifugio in Valle D’Aosta. Romeo parte, alla volta delle montagne della Val D’Ayas, senza sapere come e quando riuscirà nella difficile impresa, convinto comunque di dover accettare la sfida di redenzione postagli di fronte dalla vita. Arrivato in loco sarà aiutato dalle circostanze, si farà amici i neo genitori del piccolo Lorenzo, Celeste e Alessandro, inconsapevoli della sua identità, fino ad essere ospitato nel rifugio, una baita chiamata Paradiso. Alessandro è un ricercatore, è da qualche anno in questi luoghi nella speranza di filmare un animale rarissimo: lo stambecco bianco. Celeste è una bella ragazza, che ha scelto felicemente di assecondare il marito quasi estraniandosi dal resto del mondo. Romeo instaura con ambedue un rapporto di complicità, che con Celeste sfocia anche in un tenero bacio, l’ultima notte d’estate. Ma il feeling maggiore lo trova proprio con il figlio, che in poche settimane si affeziona a lui in maniera naturale, quasi insperata. La vita magicamente cambia e Romeo, pur tradendo momenti di malinconia, si integra e fa suo l’incantevole contesto che lo ha accolto e rigenerato. Un mese è passato, il tempo che aveva deciso di concedersi per riprendersi il figlio è trascorso, proprio quando arriva l’assistente sociale a mettere in guarda Alessandro e Celeste dal possibile arrivo di un losco figuro. Eh sì, proprio Romeo: ora Alessandro e Celeste sanno, ma l’ex galeotto, ignaro della visita dell’assistente sociale, decide comunque di ripartirsene senza Lorenzo. In fondo ha capito che il figlio non poteva trovare luogo migliore in cui crescere e che la sua vita, quella di un uomo trentenne, può essere ancora vissuta con fiducia.
Dicevamo del Nuti che sceglie una narrazione a tratti fiabesca, totalmente abbracciata solo nel successivo e sfortunato Occhiopinocchio, per rendere cristallini i motivi essenziali della sua poetica cinematografica; dicevamo della compiutezza di un’opera che, rispetto a Casablanca Casablanca, cerca ritorni empatici ed emotivi che di conseguenza sfuggono la congruenza narrativa classica. Tutta colpa del Paradiso, a torto ritenuta opera esile ed eccessivamente sdolcinata proprio per l’impianto narrativo e l’evidente contrasto tra una natura soave ed un contesto urbano schizofrenico e già minato dai germi della globalizzazione, è al contrario un film che trova suggestivi equilibri proprio nell’amalgama e note di merito nelle aperture e nelle cesure tematiche. L’incipit è al solito nutiano d.o.c.; dal carcere alla presa di coscienza del mutamento sociale avvenuto in soli cinque anni, Romeo incarna il personaggio che tutti avevamo imparato ad apprezzare nelle opere precedenti: i silenzi e gli sguardi col compagno di cella, le poche e folgoranti battute e i personaggi di contorno rendono allo spettatore alcuni leit motiv del bravo artista toscano il quale, proprio in conseguenza dell’incontro tra Romeo e la perfida assistente sociale costruisce la prima cesura evidente rispetto al passato. Ed è un’evidenza tutta recitativa; la performance di Nuti si fa più matura e gli occhi, almeno per pochi istanti, ci restituiscono, forse per la prima volta per intero, quell’intima malinconia in precedenza solo accennata. La successiva demarcazione che evidenzia la pellicola è quella, come si diceva, tra un mondo urbano in rapido mutamento e un avamposto di bellezza assoluta che funziona da netta e inequivocabile opposizione. Ancora una volta il cinema, in questo caso proprio grazie all’artista toscano, si fa messaggero di una realtà ancora non palese e affatto interiorizzata dallo spettatore di allora: botteghe, cinema di provincia, palazzi comprati dagli americani. Per farne cosa? Probabilmente ipermercati. E in futuro multisale. Nuti c’aveva visto lungo, dunque, rappresentando uno scenario che nel futuro prossimo sarebbe notevolmente peggiorato. Ma siamo in una fiaba, dicevamo, una fiaba che fa più che mai il verso alla realtà e che immagina, ancora una volta con grande lucidità, un “mostro umano” che nel tempo ha mantenuto se non peggiorato i suoi connotati: l’assistente sociale, interpretata da una grande Laura Betti, è uno degli emblemi più inquietanti della burocrazia, considerando il delicato ruolo incarnato, sovente con scarsissime competenze e ancor meno umanità.
Arrivato nel regno di fiaba, le immense distese naturali della Valle D’Aosta, Romeo incontra, o sarebbe meglio dire si scontra, almeno in un primo momento, con quello che Nuti ha immaginato essere l’emblema del “nuovo mondo”: lo stambecco bianco (nella realtà una capra dipinta). Un essere leggendario, quasi mitologico, una sorta d’unicorno che diventa il simbolo ideale e immaginifico della presa di coscienza di Romeo. La sequenza in cui si svela ai suoi occhi, piuttosto che a quelli del ricercatore che pur a quella ricerca dedicava tanta parte della sua vita, cattura per il gioco di sguardi tra l’uomo e l’animale. È ancora una volta un linguaggio sottotestuale, per quanto avvicinabile attraverso la spontanea empatia, che simboleggia l’incontro tra due diversità-emarginazioni: lo stambecco, allontanato perché albino; Romeo, emarginato per aver deviato, nemmeno più degno di conoscere le sorti del figlio. Il momento dell’incontro è preceduto da un urlo liberatorio del protagonista, salito su un’ altura e contemplante le vastità: siamo vicini all’epilogo, nel quale si trattengono le lacrime grazie ad un soffio di leggerezza che Nuti non fa mai mancare, nonostante il pathos commovente. Fino all’ultima immagine, in cui la mosca persecutrice viene stoppata dalla mano dell’artista toscano e da un fermo immagine sul quale scorrono, con l’ausilio del delicato tema musicale, i titoli di coda.
Proprio l’ispirata colonna sonora di Giovanni Nuti contribuisce alla resa in immagini di un’opera che abbraccia suggestioni titanico-romantiche, riaggiornate ai motivi della contemporaneità. Del resto il viaggio di Romeo è una sorta di iniziazione per ritornare al sé più puro, l’incontro col proprio sangue, fino a trovare una dimensione “eroica” nella scelta di lasciare il bimbo alla vita che aveva sempre vissuto. E anche la consueta atmosfera surreale, vivificata dai soliti ottimi comprimari (non solo un sempre convincente Novello Novelli, ma soprattutto i caratteristici abitanti delle comunità di montagna), si fa ancor più rappresentativa delle evocazioni e dei simboli dell’universo nutiano, alimentando la sensazione di sentirsi trasportati in un’ atmosfera altra, lontana e fiabesca. Senza peraltro far mai mancare gli intermezzi comici e i nonsense (anche quelli intertestuali: si legge, sul muro della cella, Orietta Berti è pazza, ad esempio), comunque dosati con inattesa misura. La scelta di Marco Vivio per il ruolo di Lorenzo si è rivelata, anche a distanza di tempo, davvero azzeccata, vista la telegenicità del bimbo; al contrario è forse la Muti ad essere penalizzata maggiormente, oscurata da un protagonista alla sua più grande prova d’attore e da una storia che concentra i suoi motivi su un tema che tocca le corde profonde di padri e figli.
Tutta colpa del Paradiso è la prima opera totalmente personale per Francesco Nuti – nella quale brillano (consapevoli) i germi di Occhiopinocchio -, il suo lungometraggio più coinvolgente, poetico, sorprendente. Del resto, chi non vorrebbe incontrare, almeno una volta nella vita, uno stambecco bianco?
Federico Magi, gennaio 2008.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Francesco Nuti. Soggetto e sceneggiatura: Francesco Nuti, Giovanni Veronesi, Vincenzo Cerami. Direttore della fotografia: Giuseppe Ruzzolini. Montaggio: Sergio Montanari. Scenografia: Francesco Frigeri. Costumi: Nicoletta Ercole. Interpreti principali: Francesco Nuti, Ornella Muti, Alessandro Alpi, Marco Vivio, Laura Betti, Novello Novelli, Bobby Rhodes, Silvia Annichiarico, Alessandro Partexano, Patrizia Tesone. Musica originale: Giovanni Nuti. Produzione: Gianfranco Piccioli per Union PN, Vittorio Cecchi Gori per C.G. Silver Film. Origine: Italia, 1985. Durata: 102 minuti.
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