Ci si interroga spesso sul concetto di libertà, termine talmente onnicomprensivo, abusato e sovente utilizzato in modo facile e inappropriato. A una vaga “libertà da”, indistinta e generale, liberalistica e giusnaturalistica, pare si sia votato il mondo contemporaneo, quasi in opposizione a una più impegnativa “libertà di”… fare, intraprendere, costruire, creare. Julius Evola, nel libro Gli uomini e le rovine, diceva che “non vi è una astratta libertà generale ma vi sono delle libertà articolate conformi alla propria natura”. Ma qual è la natura dell’uomo privato della libertà fisica, costretto tra le anguste mura di una cella per aver commesso reati e delitti? In ossequio al ragionamento evoliano sarà naturalmente diversa per ognuno, pur detenuto per lo stesso reato e nell’identico luogo. I medesimi interrogativi sul concetto di libertà sembrano toccare i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, freschi vincitori dell’Orso d’oro a Berlino, col loro nuovo lungometraggio ambientato nel carcere di Rebibbia, Cesare deve morire. Avvalendosi della collaborazione alla sceneggiatura di Fabio Cavalli e di un gruppo di attori non professionisti effettivamente detenuti nel carcere romano, i registi di Padre padrone e de La notte di San Lorenzo costruiscono un’opera interattiva e meta teatrale nella quale la rappresentazione del Giulio Cesare di Shakespeare è un modo per riflettere sull’oscurità dell’esistenza dei condannati nell’incontro con l’emozione e la poetica di un testo drammaturgico che, come pochi altri, invita a confrontarsi con i concetti di potere, autorità, tradimento e libertà.
La pellicola è concepita in modo circolare, si apre e si chiude sugli applausi riservati alla performance dei detenuti e sul mesto rientro degli stessi in cella. Dopo aver presentato il progetto ai carcerati ed aver svolto i provini per assegnare le parti principali, il regista teatrale li avvicina subito al testo. Un lungo percorso di sei mesi, attraversato da ansie, aspirazioni, epifanie e speranze consente ai detenuti di immedesimarsi a tal punto da provare la parte in ogni minimo ritaglio di tempo concesso loro. L’effetto su di essi è straordinario, perché le parole del Bardo sono l’innesco per ripensare a sé stessi come uomini liberi, nonostante la prigione. Una libertà di creare, reinventarsi e rileggere le azioni, pur sconsiderate, della propria vita in una luce nuova, di recuperare il tempo perduto e convogliare energie ed emozioni in una rappresentazione che è una sorta di percorso iniziatico. Non tanto un cammino di redenzione, come impropriamente qualcuno immaginerà, quanto la scoperta dell’arte come terapia per l’anima, del palcoscenico come ribalta che si oppone momentaneamente a una vita ingrata che per molti di loro è destinata a perpetuarsi tra le mura di una prigione ancora per parecchi anni.
La fotografia in bianco e nero, utilizzata per larga parte del film, e l’atmosfera grave in cui i Taviani calano i loro attori-detenuti, unitamente alla suggestiva e a tratti malinconica colonna sonora di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, contribuiscono a saldare il testo shakespeariano al clima angusto del carcere di Rebibbia, mentre la macchina da presa si sofferma a più riprese sui volti trasfigurati dei detenuti, totalmente immedesimati nel loro personaggio. Per rendere ancora più naturale e credibile l’operazione, i Taviani scelgono di far recitare le battute dei novelli Bruto, Cassio e Giulio Cesare nei loro rispettivi dialetti d’appartenenza, tracciando una linea davvero sottile tra teatro e realtà, tra spontaneità e rappresentazione. Il risultato finale è a tratti coinvolgente, nonostante il taglio sovente didattico e l’aura soffocante sempre presente. Espediente forse utilizzato per ricordarci che siamo comunque in un carcere e che solo attraverso l’arte i detenuti, e gli spettatori con loro, possono infrangere la barriera costituta dalla realtà. In questo senso la scelta di mettere in scena proprio il Giulio Cesare è stata ragionata e consequenziale, logico approdo di un’operazione che, per quanto si presenti come una sorta di docu-film in cui centrale è la condizione carceraria, poggia evidentemente su un’architettura studiata fin nei minimi termini.
Non è un caso che a sorreggere l’opera ci sia un certosino lavoro di scrittura, che a ben guardare è al contempo il pregio e per certi versi il difetto del film: se in effetti è proprio grazie alla scelta di affidarsi a una salda sceneggiatura che i Taviani trovano il collante che tiene unita realtà e rappresentazione, è proprio questa eccessiva attenzione al testo che fa perdere in spontaneità gli stessi carcerati. Pur nel suggestivo artificio creato, è una sensazione che resta e che sottilmente stona. Sia chiaro, la pellicola è interessante e dal taglio sufficientemente originale ma, nonostante il prestigioso riconoscimento ricevuto, lontana dall’essere un capolavoro o comunque un film destinato a restare a lungo nella memoria.
Federico Magi, marzo 2012.
Edizione esaminata e brevi note
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