Erano anni che gli appassionati li attendevano su questi sentieri mitici e polverosi, là dove finisce la frontiera e comincia il nuovo mondo, nel tempo in cui l’America puritana comincia a respirare lo spirito libertario e i cavalieri senza nome, vecchi e stanchi dopo le tante battaglie sostenute, si dileguano all’orizzonte lasciando che si disperda l’eco delle loro imprese avventurose. Al western mancavano i Coen, e ai Coen mancava il western. Ecco allora che arriva Il Grinta, rilettura molto fedele del romanzo True Grit, di Charles Portis, uscito a puntate per la prima volta nel 1968 sul Saturday Evening Post. L’opera letteraria ebbe un immediato e sorprendente successo, tanto che l’anno successivo uscì nelle sale il film omonimo, diretto da Henry Hataway e interpretato da un John Wayne al tramonto della sua brillante carriera, per questa prova premiato con l’Oscar come miglior attore protagonista. Lungi dall’essere un remake del film di Hataway, che faceva suo solo l’impianto generale immaginato da Portis, Il Grinta dei Coen è molto più fedele e ben ancorato alla narrazione originale, un vero e proprio omaggio allo spirito del romanzo, riletto sapientemente con occhi proiettati sul presente e aperto al gusto del fruitore del cinema dei giorni nostri. Il tutto, come al solito, fondendo i generi; contaminando, come consuetudine, il cinema d’atmosfera e i momenti di tensione con piacevoli e nerissime divagazioni umoristiche, senza per questo perdere in dimensione epica del racconto ed ampiezza di respiro della pellicola. Prima di proseguire nell’analisi, addentriamoci per un istante nella trama.
Siamo in prossimità della frontiera, nella seconda metà dell’Ottocento. Mattie Ross, insolita e temeraria quattordicenne, decide di vendicarsi della morte del padre, ucciso vigliaccamente da Tom Chaney, un losco malvivente che gli ha sottratto denaro e due pezzi d’oro, assoldando un vecchio sceriffo, grasso e alcolizzato, che viene chiamato Il Grinta. Il Grinta, al secolo Reuben J. “Rooster” Cogburn, è un uomo ruvido, diffidente, dal carattere difficile, oramai disilluso e lontano da tutto e da tutti. Dopo un iniziale rifiuto la Ross riesce a convincerlo dandogli un’adeguata somma in denaro, ricavata dalla giovane con arguzia e intelligenza. L’intrepida ragazzina e il vecchio sceriffo partono così per le pericolose e inospitali terre della Nazione Indiana, dove sembra essersi rifugiato Chaney, aiutati da un Texas Rangers che insegue il fuorilegge da lungo tempo.
Puro spirito coeniano e racconto epico si mescolano straordinariamente in quella che può essere ragionevolmente ritenuta una delle migliori pellicole dei due fratelli (al fianco di Fargo, Il grande Lebowsky e a L’uomo che non c’era), che con Il Grinta non solo ci raccontano una storia affascinante e densa di riflessioni che proiettano lo spettatore ben oltre l’immediatezza delle immagini, ma costruiscono anche un vero e proprio gioiello dal punto di vista estetico e stilistico partorendo una pellicola che esalta ogni singolo elemento cinematografico. Non stiamo qui certo a farvi l’elenco, ma ad una regia decisamente più ispirata rispetto agli ultimi Burn After Reading e A Serious Man, in cui i fratelli terribili del cinema americano trovano una misura così perfetta e geometrica da riportare alla memoria Fargo, fanno da supporto la splendida fotografia Roger Dawkins, che immortala in un quadro mitico e atemporale il vecchio West, e una colonna sonora, firmata ancora una volta Carter Burwell, che tra epici sospiri e intervalli ricchi d’atmosfera ci conduce a un epilogo che si libera sul filo sottile di lievi nostalgie e malinconie.
I Coen ci raccontano il tempo andato e ci lasciano intravedere quello che verrà, affidando ai loro personaggi, alle loro psicologie e ai loro caratteri, il ruolo di traghettatori in una nazione che al tempo contava solo 38 stati, dal mondo vecchio al mondo nuovo. In un’epoca in cui la donna non contava nulla, o era poco più di un oggetto per sollazzarsi o metter su prole, una ragazzina emancipata dal punto di vista mentale e dotata di istruzione riesce a motivare alla vita un uomo che – come poi inevitabilmente accadrà – è destinato, nel nuovo mondo, a diventare un fenomeno da baraccone: un po’ come avvenne per Buffalo Bill. L’idea dei Coen di mantenersi fedele al romanzo è, soprattutto da questo punto di vista, vincente, perché dà modo al loro cinema, attraverso un genere dimenticato ma sempre ricco di fascino come il western, di riproporre quei temi che tanto gli piacciono e che inchiodano su celluloide le infinite contraddizioni d’America. Non è fuori luogo, ed anzi mai come in questo caso è calzante pur nella palese differenza estetica, il parallelo con il cinema di Clint Eastwood e con Gli Spietati in particolare. Sono molto vicini, in effetti, narrativamente parlando, i personaggi del Grinta e quello di William Munny, come è prossima l’atmosfera da fine di un’era (Munny e Il Grinta sono gli ultimi rappresentanti “virili” d’un epoca che si apre a idee libertarie, pur non perdendo mai lo spirito puritano delle origini) che si respira nell’epilogo dei due film. Anche il grossolano duello finale, in ambedue i casi, è puramente voluto e rappresentativo di un eccesso che è destinato a perdersi nel tempo e nell’immaginario mitologico; perché gli eroi del Far West, nell’idea condivisa della modernità, diventeranno antieroi un po’ retrò: “anime salve” (come cantava il compianto De André), spiriti solitari. Ed ecco perché anche il Grinta di Jeff Bridges, proprio come il Munny interpretato da Eastwood e forse ancor più di quello incarnato da John Wayne, è destinato ad entrare a giusto diritto nella galleria dei “pistoleri senza nome” che hanno fatto la storia del genere western.
Jeff Bridges, a cui i Coen regalano un nuovo personaggio destinato ad entrare nell’immaginario mitico degli appassionati, si cala nella parte in modo straordinario, fondendo proprio Drugo Lebowsky allo spirito dei pistoleri solitari di leoniana ed estwoddiana memoria. Ne deriva una prova d’attore entusiasmante, a cui contende sorprendentemente la scena la bravissima adolescente Hailee Steinfeld, vera rivelazione del film e assolutamente meritevole, per manifesta superiorità (guardate l’opera in originale, se potete, è impressionante), dell’Oscar come non protagonista a cui è candidata. Anche Matt Damon non stona, confermando una nuova e imprevista misura interpretativa dopo la convincente prova sostenuta in Hereafter. Josh Brolin è ben calato nella parte, nella sua breve apparizione, e tutto il resto del cast sembra essere stato scelto dai Coen con un’attenzione al dettaglio quasi maniacale. Oltre alla lodata fotografia, Il Grinta si fa apprezzare per le indovinate scenografie e gli impeccabili costumi d’epoca, per una scelta dei tempi cinematografici che forse, dico solo forse, a qualche anziano appassionato di genere più incline ad azione e sparatorie continue può esser sembrata un tantino lenta ed a tratti straniante.
Proprio nella scelta dei tempi cinematografici, a parere di chi vi parla, c’è uno degli indiscutibili punti di forza dei film dei Coen, molto più vicini a Sam Peckinpah e Sergio Leone, per impatto scenico e conseguente estensione visivo-emotiva delle sequenze cardine, che al western seriale, dozzinale e confusionario che ha imperversato negli anni d’oro del genere. Il Grinta è anche, a guardar bene, un racconto di formazione, un percorso iniziatico compiuto da una ragazzina che vuole orgogliosamente sondare i territori del dolore, del coraggio, della paura, dell’onore, del rispetto e del ricordo del nome che evoca il vincolo di sangue. Nell’incontro, ora tenero ora spigoloso, tra due spiriti solitari divisi dall’età ma accomunati dal fine, vive nell’idea dei Coen il ternine di un’epoca. Un’epoca le cui tracce però non svaniscono diluendosi in un impercettibile e vago ricordo, restando inequivocabilmente iscritte nel dna di un popolo, quello nordamericano, le cui infinite e ataviche contraddizioni costituiscono, ancora oggi, al tempo stesso la sua forza come il suo stesso limite.
Federico Magi, febbraio 2011.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Ethan Coen, Joel Coen. Soggetto: tratto dal romanzo “Un vero uomo per Mattie Ross” di Charles Portis. Sceneggiatura: Ethan Coen, Joel Coen. Fotografia: Roger Deakins. Montaggio: Ethan Coen, Joel Coen. Interpreti principali: Jeff Bridges, Hailee Steinfeld, Matt Damon, Josh Brolin, Barry Pepper, Dakin Matthews, Paul Rae, Domhnall Gleeson, Elizabeth Marvel, Jarlath Conroy, Roy Lee Jones, Ed Corbim, Leon Russom, Bruce Green, Peter Leung, Marcello Murphy, Jake Walker, Don Pirl, Nicholas Sadler. Scenografia: Jess Gonchor. Costumi: Mary Zophres. Musica: Carter Burwell. Produzione: Ethan Coen, Joel Coen, Scott Rudin per Skydance Productions, Scott Rudin Productions.Titolo originale: “True Grit”. Origine: USA, 2010. Durata: 110 minuti.
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