A otto anni dal discusso Irreversible, film in cui sesso e violenza erano presentati in modo esplicito e disturbante, il quarantottenne regista e sceneggiatore argentino, trapiantato in Francia, Gaspar Noé, torna a far parlare di sé con una pellicola ambiziosa e di difficile lettura immediata, nella quale centrali sembrano essere i temi della morte e della vita dell’anima, nel momento in cui la stessa lascia il corpo. Un dramma psichedelico e allucinogeno, a detta dell’autore, che nell’immaginare la pellicola non nasconde di aver fatto uso di droghe.
È la storia di due giovani fratelli americani il cui profondo legame è stato spezzato da bambini, in conseguenza della morte dei genitori in un tragico incidente d’auto. Affidati a due diversi orfanotrofi, vivono assai traumaticamente una distanza che aveva infranto una solenne promessa fatta davanti ai corpi senza vita del padre e della madre: non si sarebbero mai lasciati, qualunque cosa fosse accaduto. Un patto di sangue cui Oscar (Nathaniel Brown) e Linda (Paz de la Huerta) riescono a tener fede solo qualche anno dopo, nel momento in cui il ragazzo, oramai ventenne, trova i soldi per far trasferire la sorella a Tokyo, la città in cui vive. Oscar fa lo spacciatore e si è messo in un giro pericoloso; non solo, fa anche costante uso di sostanze psicotrope. Linda invece comincia a lavorare come lap-dancer e diventa l’amante del suo capo, nonostante la cosa non vada assolutamente a genio al fratello. Proprio durante un “viaggio”, causato dall’assunzione di DMT, Oscar andrà incontro alla sua fine terrena, ad una morte violenta che si consuma nel malfamato locale The Void. Da qui la disperazione della sorella e del caro amico Alex (Cyril Roy), anch’egli consumato dalle sostanze stupefacenti, che aveva introdotto Oscar ai temi della reincarnazione e del karma attraverso la lettura del Libro tibetano dei morti. Dal corpo senza vita di Oscar, però, fuoriesce l’anima che comincia a fluttuare per le vie di Tokyo, seguendo la vita della sorella e dell’amico, senza peraltro poter far nulla di materiale per poterli sostenere. Eppure, una luce in fondo al tunnel sembra esserci. Per Oscar, e per le persone che gli sono care.
Film a dir poco pretenzioso, ancorché esteticamente curioso, Enter the Void mette tantissima carne al fuoco ma senza una visione strutturale d’insieme. Se il regista era veramente sotto stupefacenti quando l’ha partorito, come ha affermato, c’è da credergli, vista la resa complessiva. L’ispirazione, rivendicata anch’essa in sede di presentazione del film, al Libro tibetano dei morti e ai conseguenti precetti buddisti del karma e della reincarnazione, apparentemente centrali, sembra essere invece un pretesto che l’autore utilizza per sviluppare in forma filmica le sue visioni iconografiche e ambiguamente estetizzanti, nelle quali emerge sempre una deriva materialistica e nichilista del sesso, privo proprio di quell’anima che, fuoriuscita dal corpo di Oscar, vaga per la capitale giapponese in cerca in un corpo in cui incarnarsi. Il nichilismo di fondo che traspare dall’opera di Noé – certo non assoluto e cristallino come quello di Lars von Trier, dunque più ambiguo e fastidioso, per certi versi –, è confortato non solo dallo sviluppo narrativo della pellicola, ma anche da un’estetica che ci presenta, prima ancora che i personaggi, una Tokyo dalle mille luci ovattate, vista dall’alto con enorme distanza empatica dall’autore, persa nel vuoto dei suoi infiniti amplessi consumati nelle sue costruzioni colorate e inanimate. Una megalopoli alienante come nessun’altra, nella quale in tanti si accoppiano come bestie ma nessuno sembra incontrarsi mai veramente. Una progressione visiva davvero desolante, quella proposta da Noé, intervallata da viaggi nella memoria del protagonista e trip psichedelici che distorcono la realtà e i ricordi, alterando gli stati di coscienza fino a farli convergere alle porte del sogno: più spesso dell’incubo, a dire il vero.
La regia di Noé è in linea col distacco emotivo proposto e cerca una distanza palese dagli eventi, con inquadrature dall’alto sovente in campo lungo e attraverso estenuanti piani sequenza sulla città e sui personaggi, sfumando i colori in tinte depressive anche quando accese, inseguendo i protagonisti da angolazioni che evitano l’incontro visivo con sguardi e lineamenti. Oscar, ad esempio, quando è in vita è sempre filmato di spalle, e una volta deceduto è ripreso costantemente in soggettiva.
L’uso della soggettiva è il tratto distintivo della regia di Gaspar Noé, che privilegia un montaggio straniante e un cambio sequenza che ricorda vagamente l’ipnotico INLAND EMPIRE, il capolavoro onirico di David Lynch. Ma Lynch è un genio e il regista francese solo un apprendista stregone, per quanto dotato di una certa visività, e quello che nel cineasta americano sembra magicamente spontaneo e consequenziale, sia dal punto di vista visivo che sonoro, in Noé sembra forzato e cervellotico; appare come un tentativo, ripetuto ed estenuante, di ostentare un’autorialità a tutti i costi di cui non c’è reale necessità. Enter the Void, pertanto, si avvita su se stesso, sulle sue abbondanti due ore e mezzo di durata, su una narrazione priva di una reale coerenza interna, su una innegabile pesantezza complessiva stemperata appena dai viaggi a ritroso compiuti dall’anima di Oscar, che ritorna più volte alle immagini che sanciscono il legame tra i due fratellini. Nonostante il bagliore finale e l’avvenuta trasmigrazione, si ha la sensazione che Enter the Void sia un’opera incompiuta sia dal punto di vista narrativo che da quello estetico e filosofico, la cui pecca maggiore, tra le tante, è proprio l’assenza di quella leggerezza metafisica che è alla base dell’orientamento dottrinario che ispirerebbe il film.
Federico Magi, gennaio 2012.
Edizione esaminata e brevi note
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