Wells Herbert George

Nel paese dei ciechi

Pubblicato il: 20 Aprile 2012

Ho pensato a “Flatlandia” ed ho pensato a “Cecità”. Due opere diverse che si lasciano rammentare, senza troppi sforzi, durante la lettura del bel racconto di Herbert George Wells, pur essendo state scritte in tempi diversi da autori diversi, non necessariamente a conoscenza l’uno dell’altro. Il piccolo libro di Wells, suggeritomi da un’amica, è una lettura seducente anche per chi, come me, non ha una grande passione per le storie fantastiche o bio-fantastiche. “Nel paese dei ciechi” è un racconto breve con implicazioni e significati che si dispiegano l’uno dopo l’altro anche agli occhi di un lettore non molto attento.

Il paese dei ciechi richiama una leggenda, una di quelle tanto care agli autori del primo novecento così avvinti dal fascino della possibile esistenza di regioni lontane, dimenticate e distanti dal quel mondo noto che non sembra avere più segreti. Wells appartiene ad una fase temporale, posta tra fine ‘800 e primo ‘900, in cui l’umanità sta approntando una serie di scoperte e di innovazioni in grado di rivoluzionarne per sempre l’esistenza. H.G. Wells, prima di essere uno scrittore, è uno scienziato, allievo di Thomas Henry Huxley, il cosiddetto “mastino di Darwin” per via del suo sostegno incondizionato alla diffusione della teoria evoluzionista. E l’impronta scientifica/evoluzionista si sente chiaramente anche “Nel paese dei ciechi”.

Tra le impervie vette delle Ande ecuadoriane, secondo la leggenda, esiste un paese abitato solo da persone cieche. Un luogo quasi incantato per la bellezza e la suggestione dell’ambiente, per la freschezza delle acque e la ricchezza della terra. Una valle rimasta per quindici generazioni totalmente separata dal mondo. Trecento anni di assoluta solitudine in cui il dono della vista è andato gradualmente a scomparire così come, nel corso dell’evoluzione del genere umano, sono spariti altri caratteri fisici poco rilevanti. Nessuno, per secoli, ha mai raggiunto quel paese e nessuno da quel paese è mai andato oltre le cime inarrivabili. Nessuno tranne Nuñez che, precipitato lungo i pendii del Parascotopetl (monte fittizio inventato dallo scrittore), durante un’eroica escursione, si ritrova a scivolare miracolosamente incolume nel paese dei ciechi, in un villaggio dall’aspetto insolito: “Nel villaggio al centro, le case erano molto dissimili da quelle agglomerazioni casuali, alla rinfusa, proprie ai villaggi di montagna ch’egli conosceva; erano allineate senza interruzioni, dalle due parti, lungo una strada centrale di una pulizia stupefacente; nelle facciate, lisce e a più colori, qua e là s’apriva una porta, ma non una sola finestra. Erano variegate con straordinaria irregolarità, intonacate con una materia qua grigia, lì giallastra, altrove color dell’ardesia oppure marrone scuro. Proprio la vista di quell’intonaco pazzesco fece venire in mente per la prima volta, all’esploratore, la parola “cieco”. Pensò: “Il brav’uomo che ha fatto una cosa simile doveva essere cieco come una talpa”“.

Nuñez viene così a contatto con gli abitanti del luogo e l’impatto tra un vedente e dei non-vedenti che non sanno più cosa sia vedere è allucinante. Nuñez cerca come può di far comprendere o ricordare ai ciechi cosa sia il mondo visto da un paio d’occhi, ma per chi da generazioni e generazioni non vede nulla e si limita ad utilizzare tutti gli altri sensi, resi sopraffini dall’uso, è impossibile prestar fede ad un vedente. Nuñez viene portato davanti agli anziani e giudicato un uomo appena creato che ignora le regole del mondo. “E’ rude come le rocce che l’hanno partorito” oppure “Ha i sensi ancora imperfetti, inciampa, dice parola senza significato ” oppure “l’avete sentito? Bogotà. Non ha ancora l’intelletto sviluppato. Possiede solo rudimenti del linguaggio“.

Nuñez ritiene di avere un vantaggio notevole sugli abitanti del luogo: lui ci vede, loro no. E nella sua testa inizia a materializzarsi l’idea di poter divenire, per quegli umani ciechi, una sorta di re o di dio. Nulla di più sbagliato. L’uomo arrivato dal mondo deve soccombere all’incomprensione dei suoi ospiti, neanche i suoi tentativi di ribellione portano a nulla. “Capì che, contrariamente alle sue speranze non avrebbe ottenuto stupore e reverenza per la sua origine e le sue facoltà; e dopo che costoro ebbero mostrato di non tenere in nessuna considerazione i suoi miseri sforzi di spiegar loro la vista, considerandoli balbettamenti di un essere appena formato che descrive come portenti le sue sensazioni slegate, egli si rassegnò, un poco mortificato, ad ascoltare le loro istituzioni“. E’ considerato un inetto, un idiota e come tale viene trattato. La vista non gli offre alcun vantaggio perché tutti sanno cosa fa e dove va semplicemente ascoltandolo o annusandolo. L’amore di una giovane donna, Medina-sarotè, poco apprezzata nel paese per via delle sue lunghe ciglia e di palpebre più rigonfie del normale, sembra ricondurre Nuñez ad un’esistenza meno difficile. “Con grande cautela, molto timidamente, le parlò della vista. A lei, quell’invenzione della vista, parve un’invenzione poeticissima, e stette ad ascoltare la descrizione delle stelle, dei monti, della sua stessa dolce bellezza rischiarata dalla luna, come cedendo ad una colpevole debolezza. Non ci credeva, anzi capiva solo in parte; ma ne era misteriosamente deliziata, ed egli potè credere ch’ella avesse capito tutto“. Il matrimonio tra i due, però, è vivacemente avversato da chiunque. L’unica soluzione che uno degli anziani, un medico, propone è quella che Nuñez venga reso normale, uguale a loro. “Queste strane cose chiamate occhi, che esistono per formare nel volto una lieve e piacevole depressione, in Bogotà sono malate di modo che gli disturbano il cervello. Sono dilatate, hanno le ciglia, con palpebre che si muovono; di conseguenza il suo cervello è in uno stato costante d’irritazione e di distruzione. E allora?”, disse il vecchio Yacob, “Allora?”. “Io credo di poter dire con ragionevole certezza che, per guarirlo completamente non abbiamo da fare altro che una piccola operazione chirurgica, facile e semplice, cioè rimuovere questi elementi irritanti“.

Evito accuratamente di svelare l’epilogo della vicenda per rispetto di chi vorrà leggere “Nel paese dei ciechi”. Un libricino che contiene una storia incantevole e terribile scritta in maniera raffinata ed intelligente. Una piccola chicca che, così come è stato suggerito a me, raccomando di non perdere.

Edizione esaminata e brevi note

Herbert George Wells è nato a Bromley, un borgo a sud est di Londra, nel 1866. Dopo aver compiuto con scarsa soddisfazione lavori diversi, si è laureato in zoologia e biologia nel 1890 dopo aver studiato sotto la guida di T. H. Huxley. Wells fu per diversi anni insegnante universitario e giornalista ma, a seguito di condizioni di salute piuttosto precarie, fu costretto a condurre una vita sedentaria. Viene indicato come uno dei fondatori della letteratura fantascientifica. Alla sua penna si devono capolavori classici del genere come “La macchina del tempo”, “L’uomo invisibile”, “L’isola del dottor Moreau”, “La guerra dei mondi”, “Nei giorni della cometa” e altre opere da cui sono stati tratti anche dei film famosi. E’ stato uno scrittore molto prolifico e molto amato. Tra i suoi libri figurano anche dei testi politici e didattici. Wells è morto a Londra nell’agosto nel 1946.

Herbert George Wells, “Nel paese dei ciechi“, Adelphi, Milano, 2009. Traduzione di Franco Salvatorelli con una nota di Sandro Modeo. Titolo originale “The country of the blind” (1904).

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