Per superare la sua crisi d’identità artistica, Caden Cotard (P. Seymour Hoffman), un noto regista teatrale, decide di mettere in scena la sua vita e i suoi fallimenti umani: l’abbandono da parte di sua moglie Adele, che si trasferisce a Berlino con la loro bambina, una successiva relazione naufragata sul nascere con una donna, Hazel, che gli rimarrà nel cuore per sempre, una storia d’amore con la sua prima attrice, più compagna d’arte che di vita, e poi le sue malattie psicosomatiche, le ipocondrie, la costante paura della morte che è in realtà visione anticipatrice dell’inesorabile. La messa in scena avverrà in tempo reale: durerà una vita, tanto quanto la vita di Caden, e sarà indistinguibile e inseparabile dalle prove (sembra un omaggio a Grotowski, peraltro citato nel film, e alla sua predilezione per le prove rispetto allo spettacolo in sé). Man mano che la vita reale e scenica di Caden andrà avanti, i personaggi si moltiplicheranno e così gli attori che li rappresentano sul palco, e nello spazio teatrale che li contiene – una specie di grande hangar abbandonato nel theater district newyorkese – le scenografie che ripetono gli interni e gli esterni delle esperienze di Caden cresceranno le une sulle altre in un work in progress mai compiuto.
Caden cerca se stesso negli attori che mettono in scena la sua vita, ma l’unica verità che riesce a trovare è che lui è uguale a tutti gli altri esseri umani. Che non è nulla di speciale, e soprattutto non è l’essere speciale che si è sempre creduto. È l’uno per tutti, l’uno come tutti, la parte per l’intero. Lui è solo la sineddoche dell’intera umanità.
Synecdoche, New York è un opera complessa, che non lascia indifferenti. Un senso di morte, di perdita, di inutile attesa si leva dal film come nebbia, alimentata da un simbolismo capillare e stravagante, spesso riuscito: penso alla casa perennemente in fiamme dove Hazel va a vivere accettando il rischio/destino di morte («We all live in a house on fire, no fire department to call, no way out», diceva Tennessee Williams); alle deiezioni su cui si focalizzano l’ipocondria di Caden e la sua ossessione per il disfacimento; ai biglietti lasciati alla donna di servizio attraverso cui comunicano Caden e Adele, un corrispettivo della paradossale traduzione simultanea a cui ricorre Caden nell’ultimo colloquio con la figlia ormai adulta che parla solo tedesco: filtri comunicativi, in entrambi i casi, che sono markers di una distanza tra gli esseri umani non colmabile se non illusoriamente (ed è un peccato che proprio nella scena dell’addio alla figlia, una delle più dolorose, una gag surrealista raggeli il pathos con una inopinata allusione ad un’omosessualità di Caden che non trova altri appigli nel resto del film).
Sprazzi di dadaismo, non-sense, indizi che non portano da nessuna parte. Ma in questo primo e finora unico film di Charlie Kaufman, sceneggiatore di film culto come Essere John Malkovich e Eternal sunshine of the spotless mind, c’è anche la vita come superfetazione di esperienze senza filo rosso né direzione, il teatro grotowskianamente inteso come simbiosi tra regista e attore, il destino mortale come unico vero trait-d’union tra gli esseri umani. C’è molto in questo film, e nel cinema il molto e il troppo fatalmente finiscono per coincidere; ma è anche vero che qui il sovrappiù non è tanto nei temi quanto nelle figure e nei modi della regia: una narrazione che procede accumulando gli eventi con una rapidità che ricorda i veloci cambi di scena tipici delle esperienze oniriche. Potrebbe essere una scelta di stile (dopotutto la fusione e l’ambivalenza di reale, immaginario e onirico è una costante del film), se non fosse che la rapidità spesso è tale da non lasciare a chi guarda il tempo dell’immedesimazione, della sedimentazione, della partecipazione emotiva. A volte subentra la noia – una noia da eccesso, da bulimia di eventi e microeventi non sempre necessari, a volte pletorici -, stranamente generata non dalla lentezza ma dalla velocità del ritmo. E finisce che a volte si ha l’impressione di assistere non ad un film, ma al suo trailer.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Charlie Kaufman
Soggetto: Charlie Kaufman
Sceneggiatura: Charlie Kaufman
Direttore della fotografia: Fred Elmes
Montaggio: Robert Frazen
Interpreti principali: Philip Seymour Hoffman, Samantha Morton, Catherine Keener, Michelle Williams, Tom Noonan, Dianne Wiest, Jennifer Jason Leigh
Musica originale: Jon Brion
Scenografia: Mark Friedberg
Costumi: Melissa Toth
Produzione: USA, 2008
Durata: 124 min.
Articoli e approfondimento:
Su Gli spietati
In lankelot:
Eternal sunshine of the spotless mind
Elettra Sammarco, giugno 2014
(pubblicata su http://www.mymovies.it/film/2008/synecdochenewyork/pubblico/?id=698071)
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