Qualche anno fa, nel quartiere Testaccio a Roma, il nuovo spazio “Macro Future” venne inaugurato con una collettiva, “Into me, out of me”, proveniente dal PS1 di New York: centoquaranta artisti tra i più rinomati nel panorama internazionale (da Marina Abramovic ad Andrès Serrano, da Valie Export a Chris Burden, dagli azionisti viennesi a Nan Goldin) chiamati a illustrare, con foto, installazioni e videoarte, il tema del corpo e della fisicità, attraverso temi come la sessualità e la riproduzione, l’aggressione e la violenza, i processi metabolici e organici.
In generale era il corpo la materia prima usata dagli artisti, spremuto, strizzato, munto, variamente martirizzato per cavarne fuori una goccia di significato artistico. Nessuno shock da parte mia, né degli altri visitatori, alla vista delle eiaculazioni di Andrés Serrano, o del vomito di Sue Williams e Mike Parr. Solo una certa insofferenza di fronte all’abbondanza di tautologie profuse a piene mani nei due padiglioni della mostra: il video “Quien puede borrar las huellas” in cui Regina José Galindo si imbratta i piedi di sangue umano e cammina per le strade per denunciare i crimini di Efraim Rios Montt, sanguinario ex dittatore guatemalteco, “Vagina painting” di Shigeko Kubota, azione in cui l’artista, dipingendo con un pennello inserito nei suoi genitali, rivendica il ruolo della donna nell’arte; il video “Barbed Hula” dell’israeliana Sigalit Landau, che si martirizza i fianchi nudi con un hula hoop di filo spinato per denunciare le barriere tra il popolo israeliano e quello palestinese. Cos’altro erano se non scontate tautologie quelle opere in cui si rappresentava il sangue col sangue, il filo spinato del Muro palestinese col filo spinato di un puntuto cilicio roteante all’altezza dei fianchi, e il ruolo femminile nell’arte con vagina e pennello? Ricordo anche che, visitando la mostra e riflettendo sul respiro corto, cortissimo, di quelle metafore, mi erano tornate in mente alcune pagine lette solo pochi giorni prima della visita al Macro: pagine tratte da un romanzo breve di Michele Mari, “Io venia pien d’angoscia a rimirarti”.
La storia che veniva narrata in quel libbrino era piuttosto audace: un Leopardi adolescente (adombrato nel nome Tardegardo Giacomo), già poeta ed eccezionale erudito, è alle prese con una strana inquietudine che turba le sue tranquille giornate di studioso e che ha per oggetto la luna, i suoi misteri, le sue storie e i culti di cui nei secoli è stata fatta oggetto. Una “selenolatria” che inizialmente sembra derivare dalla stesura del canto “Alla Luna” (di qui il verso “Io venia pien d’angoscia a rimirarti”), a cui il giovane poeta si sta dedicando. In realtà, nel finale del romanzo, il “male di luna” di Leopardi si rivelerà essere ben più profondo, inquietante e minaccioso di un semplice afflato poetico. Più che la stravagante e persino impertinente materia narrativa del romanzo, però, erano state alcune splendide riflessioni sulla “lunghezza del Vero” che Mari fa pronunciare al suo pseudo-Leopardi a catturare la mia attenzione e a risuonare nella mia mente durante la visita al Macro:
«Significo per lunghezza del Vero il grado della sua facoltà di congiungere le cose più disparate e lontane: che ’l fuoco abbruci a toccarlo è un vero assai corto, e anche i fantolini per non dir delle bestie il comprendono; che un raggio del sole concentrato e rifratto da una lente bruci ancor esso, è un Vero un po’ più lungo, che richiede sperienza; ancor più lungo (perché vuole applicazion d’intelletto e più regolata sperienza) è quel Vero che stabilisce le leggi del suddetto fenomeno: e così via fino a que’ lunghissimi Veri che si chiamano Sistema dell’Ottica, della Fisica ec. ec., dove cose all’apparenza lontanissime fra loro vengono meravigliosamente collegate. Or io credo che quanto più lungo sia un Vero, tanto ei fia anche più bello (: e dilettoso: o spaventoso)».
Il Vero dunque è molto di più di ciò che è semplicemente evidente e che cade sotto gli occhi di tutti. Anzi, più il Vero è tale, più è nascosto, lontano dall’evidenza bruta, defilato rispetto al banale essere-qui delle cose: «I fatti storici attestan del certo, a me preme il vero, quel lunghissimo Vero che giace al fondo delle cose come una lor musica secreta, ma che lo spessor medesimo che il fascia ci vieta d’udire». Non che l’evidente non sia vero anch’esso, semplicemente lo è in una forma depotenziata, ristretta, che finisce per coincidere con la semplice “correttezza”. Insomma, il Vero è “lontano” e si misura a passi lunghi, quelli che servono per stanarlo e portarlo alla luce; l’evidente invece è ciò che ci sta da presso, occupa il nostro campo visivo, non c’è bisogno di spostarsi di un solo passo per notarlo, ed è proprio questo suo essere a portata di mano che lo rende utile, casomai, e anche pratico, ma lo priva di ogni bellezza. Perché la bellezza – e con essa la Verità – non si addice alle cose lampanti, che sono in luce da sempre, la bellezza non è solare, bensì schiva e umbratile, profonda e cunicolare.
Dunque, per lo pseudo-Leopardi di Mari, la lunghezza (cioè la connessione tra cose distanti) è criterio di verità, unità di misura del Vero che è «secreto e ascoso, per gelosia di Natura». La bellezza invece è la ricaduta estetica del Vero, il chiarore lunare che esso irradia nella sua lontananza. Se per Platone era il Sole il simbolo della Verità e del Bene che rende le cose conoscibili, per Mari è la Luna, così ascosa e spettrale, che «rivela il vero volto delle cose». E la Verità che si palesa attraverso di lei non emana bagliori apollinei, ma è fosca e spaventosa, ed esce dal suo nascondiglio come un lupo dalla selva.
Con queste pagine sulla teoria del Vero, Mari mi aveva aiutato a sintetizzare cosa mancava a quelle piatte metafore della mostra al Macro: l’ampio respiro, la lunghezza, la lontananza. C’era lo spavento, ma non la bellezza. Tutto era troppo scoperto, i significati erano tutti là, disponibili, alla luce del sole ma non a quella della Luna, bastava tendere la mano per afferrarli. E grazie a un piccolo romanzo filosofico avevo capito perché quelle metafore dal passo corto mi avevano urtato e deluso allo stesso tempo.
Ora, si può anche discutere dei limiti del romanzo di Mari: un “colto divertissement”, l’hanno definito alcuni (divertissement? Questa cupezza?), scritto da uno “scrittore falsario” (falsario? Mari non è un copista, se scrive mimando un perfetto italiano leopardiano non è per esibizione virtuosistica, ma per una intima e personale adesione al pathos di quella lingua). Piuttosto, è legittimo osservare che la vena pensante e riflettente di Mari a volte offusca quella narrativa; e se da un lato alcuni bozzetti sono memorabili (ad esempio quello di Leopardi che fa ginnastica di nascosto nelle scuderie quasi a volersi affrancare dalla cappa della vita intellettiva), e riuscitissimo è il racconto neogotico della vita di Sigismondo della Marca, presunto antenato licantropo di Leopardi, è anche vero che lo spunto narrativo della “doppia vita” del poeta avrebbe potuto essere svolto fino in fondo e visualizzato con più spregiudicatezza.
E tuttavia, in questa indecisione tra il romanzo e l’operetta morale, tra il Mari narratore e il Mari tessitore elegante di prose filosofiche, germinano pagine struggenti sulla natura e la condizione umana. Come quelle sull’origine della licantropia, il “male di luna” che rende gli uomini mezzi lupi:
«Ma prendi il Minotauro o le Sfingi, prendi gli amanti di Circe o i Centauri, vedrai che le leggende dell’uomo sono piene di uomini mezzo mostri e mezzo animali, d’animali che furono uomini, di uomini che furono animali. Sai tu donde questo procede? Non d’altro […], che da nostalgìa».
Nostalgia di un’unione ancestrale e indistinta con la natura (« E se la nostra autentica vita fosse quella notturna, quando l’intelletto svapora e quaj cervi elefanti orsi anguille serpenti noi siamo riaccolti nel vastissimo abbraccio di Madre Natura?»). Di un passato remoto di cui conserviamo lo spettro nella memoria e che ci rende tutti potenziali licantropi ululanti alla Luna, l’astro-metafora delle verità lontane, e inquietanti.
Edizione esaminata e brevi note
Michele Mari (Milano 1955). Romanziere, poeta. Insegna letteratura italiana all’Università statale di Milano. Tra i suoi libri di narrativa, “La stiva e l’abisso”, Bompiani 1992; “Rondini sul filo”, Arnoldo Mondadori editore, 1999; “Verderame”, Einaudi, 2007; “Rosso Floyd”, Einaudi, 2010 (ripubblicato da Einaudi nel 2012).
Michele Mari, “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti”, Cavallo di Ferro, Roma 2012, pp. 140, € 12,90.
Prima edizione: “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti”, Longanesi, Milano, 1990
Bibliografia consigliata: Alice Di Stefano, “Le ossessioni di Michele Mari”, Sincronie, 2004, n. 16, 185-191; Alessandro Iovinelli, “Le strategie ipertestuali di Michele Mari”, Narrativa, 2001, n. 20-21, 297-304; Riccardo Donati, “Collezioni di ceneri. qualche appunto su Michele Mari”, in “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi”, Bulzoni, Roma, 2010, 213-230; Carlo Mazza Galanti, “Michele Mari”, Cadmo – Scritture in corso, Fiesole, 2011; Enzo Golino, Michele Mari: Io Venìa pien d’angoscia a rimirarti, in “Sottotiro. Quarantotto stroncature”, Manni, Lecce, 2002.
Approfondimento in rete:
http://jumpinshark.blogspot.it/2012/10/io-venia-pien-dangoscia-rimirarti-di.html
http://www.paradisodegliorchi.com/Io-venia-pien-d-angoscia-a-rimirati.26+M544d5933196.0.html
In Lankenauta: schede sui libri di MICHELE MARI
Elettra Santori, 2012
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