Pedullà Gabriele

Lo spagnolo senza sforzo

Pubblicato il: 15 Dicembre 2011

A dar retta alla quarta di copertina (oltre che al titolo), il fil rouge di questa raccolta di racconti sarebbe il linguaggio ‒ o meglio il potere psicagogico della parola che finisce per usare chi parla, portandolo dove non sapeva di voler andare. Ma anche l’acquaforte di Carol Rama scelta per la copertina (“Le malelingue”, con i mostri linguacciuti che l’artista torinese usava dipingeva ), col suo rimando alla capacità invischiante della parola fa la sua parte per mettere il lettore sulla falsa pista enunciata in quarta.

Fatto sta che si comincia a leggere “Lo spagnolo senza sforzo” di Gabriele Pedullà con l’idea sommaria di avere a che fare con un’opera sulle ambiguità e la potenza del linguaggio, per poi scoprire che questo vale solo per due dei cinque racconti del volume. Che la sintesi concettuale in quarta di copertina in realtà è, come al solito, semplice marketing editoriale, teso, questa volta, non tanto a magnificare il libro, quanto a trovare un immaginario e forzoso trait d’union per le sue cinque storie. Come se scrivere racconti invece che un romanzo (siamo alle solite), e per giunta sfusi, a tema libero, fosse un difetto che l’editore deve occultare, un peccato originale da espiare inventando un fil rouge che dia l’illusione dell’unità, della continuità, della durata propri di una narrazione estesa.

E invece questi racconti di Pedullà sono belli così, senza molto in comune. Tranne la scrittura: ritmica e inarrestabile, pochi punti e tante virgole, e tuttavia mai precipitosa o superficiale, naturalmente elegante, che nel suo fluire riesce a ritagliarsi il tempo per acute escavazioni psicologiche (come in “Ritiro bagagli”) e paesaggi impressionistici (vividi e sensoriali quelli di Stromboli in “Armoniosa e risonante”). Insomma, un punto di equilibrio perfetto tra velocità e lentezza.

Nel racconto che dà il titolo al libro, un manager acquista in aeroporto un corso di spagnolo in cd, di quelli che si ascoltano come sottofondo mentre si fa altro e che promettono l’impianto cerebrale di una lingua straniera come si trattasse di un innesto di memoria alla Philip Dick. Per mesi il manager ascolterà i cd solo di notte, dormendo, e con sua sorpresa si ritroverà a parlare uno spagnolo impeccabile che gli varrà i complimenti dei suoi colleghi ispanofoni: «si era svolto tutto con la più grande naturalezza, le parole che gli spuntavano sulle labbra quasi quel perfetto castigliano venisse da una remota provincia del cervello che Mario nemmeno sapeva di possedere, da dentro o da fuori, direttamente dai cd del corso di spagnolo». Un caso di possessione linguistica: lo spagnolo come una specie di daimon socratico, voce interiore che guida l’azione del protagonista, gli apre porte, gli crea persino occasioni sentimentali. Finché la lingua, come una creatura aliena che gli è cresciuta in corpo, non prenderà il sopravvento su di lui e sarà – forse – la fine.

“Armoniosa e risonante” è l’altro racconto che ha per tema la lingua straniera, l’italiano, stavolta, che uno studente in vacanza a Stromboli con un gruppo di amici cerca di insegnare alla turista tedesca con cui ha imbastito una storia: ma dopo i primi, giorni, i suoi intenti seriamente pedagogici cedono il posto a un gioco, nato per caso durante un pomeriggio più afoso degli altri:«Questo è l’orecchio, sì, orecchio, fronte, ripeti con me, fronte, la scusa per toccarla ancora, dopo l’amore, forse era stato solo questo, l’intimità infantile che accompagna il desiderio soddisfatto o perché Ulla ripeteva a pappagallo qualsiasi cosa Lele dicesse […] Quando erano arrivati alle guance Lele aveva detto occhi e il primo a stupirsene era stato lui, nulla di preordinato e perché poi, perché occhi per guance, un motivo non c’era, nessuna ragione per farlo, e tuttavia da quel momento non aveva smesso finché non era arrivato in fondo, ciglia per labbra, piede per seno, naso per cuore, il corpo di Ulla interamente alla rovescia». Il gioco continua così, fino alla fine della vacanza, scarpa al posto di nube, margarina per guanciale, forse semplicemente perché Lele è affascinato dalle combinazioni linguistiche che scaturiscono quando Ulla prova a comporre una frase in quell’italiano matto e scentrato. Ma alla fine scoprirà che in quel gioco l’unico a rimanere giocato, in realtà, è stato lui.

“Ritiro bagagli”, il più emozionante dei cinque racconti, parla di una coppia di quarantenni sposati da vent’anni, affiatati ma in cerca di un evento che spezzi la loro esistenza ormai prevedibile: il figlio che ora desiderano, dopo averne in passato rifiutato l’idea, tarda ad arrivare; e allora, per evadere dalla loro vita e viverne altre, ricorrono a un gioco erotico singolare: appropriarsi della valigia sbagliata all’aeroporto durante i loro frequenti viaggi (ricordate Frantic di Polanski?), aprirla in albergo e fantasticare sulle vite dei legittimi proprietari, studiarne gli oggetti, indossarne gli indumenti (Mara non sembra più lei se si infila la guêpière di una sconosciuta, e anche Michele si sente un altro uomo, mentre la ama). Poi il gioco feticistico si espande, diventa illusione di vivere altre vite, di regredire a quella fase della giovinezza ancora fertile di opportunità e di esistenze possibili. Ma il racconto sarebbe meno toccante e più scontato senza il tema della maternità irrealizzabile, che, rimosso all’inizio, riappare, luttuoso, nel finale.

Anche in “Valle della morte” si gioca a un gioco inventato, anche qui c’è curiosità e esplorazione, non di altre vite, ma di un altrove misterioso e misterico: la periferia romana, terra da iniziati, dove un gruppo di ragazzi della città bene si inoltrano prendendo gli autobus a caso e cercando di tornare in tempo al punto di partenza. Una prova di coraggio, più che di velocità, che segna il passaggio da una preadolescenza protetta all’adolescenza sperimentale e protesa in ogni direzione.

Anche il mondo di Miranda ‒ la ragazza cieca protagonista dell’omonimo racconto ‒ è per la sua nuova amica Stefania una terra incognita su cui il piede avanza pieno di timore e imbarazzi. Molto più di Miranda (che, non si sa come, riesce a muoversi nella terra dei vedenti con una precisione e una sicurezza inspiegabili), è Stefania che sembra avere il passo incerto dei ciechi quando si trova con lei; e timorosa com’è di ferire la sua sensibilità, la ferirà davvero.

Questi i cinque racconti dell’esordio letterario di Pedullà. Molto più facile, ma più rispettoso, sintetizzarli che non forzarli in una chiave di lettura unitaria. Al momento, la vena dell’autore è un bulicame vitalissimo di temi e personaggi che sembrano sgorgare da un senso generico e personale di perdita e di mancato risarcimento. Ma come scriverlo, questo, in una quarta di copertina?

Edizione esaminata e brevi note

Gabriele Pedullà (Roma, 1972), insegna Letteratura italiana presso l’Università di teramo. Ha pubblicato saggi su Beppe Fenoglio e sulla condizione del cinema e delle altre arti nell’epoca degli individual media (In piena luce, Bompiani 2008). Nel febbraio 2017 ha pubblicato “Lame” (Einaudi), suo primo romanzo.

Gabriele Pedullà, “Lo spagnolo senza sforzo”, Einaudi, Torino 2009.

Approfondimento in rete:

www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=pedulla_spagnolosenzasforzo&cat=harvard+diary

Elettra Santori, 2011