Posso dire di aver lavorato a questo saggio più, e con più impegno e passione, che a ogni altro mio libro.
Così Leonardo Sciascia al termine della Nota posta in chiusura di “Morte dell’inquisitore”, un libro pubblicato, per la prima volta, nel 1964. Un’inchiesta storica legata al nome di fra Diego La Matina, siciliano di Racalmuto che condivide con Sciascia il luogo d’origine e forse molto altro. Un “antenato” la cui memoria è stata tramandata, seppur in maniera confusa e vagamente distorta, sotto forma di leggenda orale e popolare o di racconto scritto.
Sciascia cerca la verità e tenta la ricostruzione storica di eventi risalenti al XVII secolo senza avere il conforto totale di una documentazione completa e precisa. Lo scrittore ha consultato quanto era in suo potere consultare, purtroppo tutti gli atti del Sant’Uffizio siciliano vennero fatti divorare dalle fiamme dal marchese Domenico Caracciolo, viceré di Sicilia, il 27 giugno 1783. Il Tribunale dell’Inquisizione era stato abolito in questa terra solo un anno prima, nel 1782. Una storia lunga secoli, quella dell’Inquisizione siciliana, che, dal 1487 al 1782, portò sul rogo ben 234 persone, senza contare i condannati a pene minori, gli inquisiti e tutti coloro che, per i motivi più disparati, avevano avuto a che fare con gli inquisitori cristiani.
Presso l’archivio nazionale di Madrid esiste però la “Inquisición de Palermo o Sicilia”, un insieme di documenti che Sciascia ha visionato e studiato per recuperare informazioni sulla realtà del Sant’Uffizio in Sicilia. I due cronisti che hanno lasciato tracce scritte della vicenda particolare di fra Diego sono essenzialmente due: Vincenzo Auria e padre Girolamo Matranga. Entrambi intrigati al Sant’Uffizio, per cui palesemente di parte.
Il fatto è il seguente: fra Diego uccise il suo inquisitore, monsignor Giovanni Lopez de Cisneros. Nella storia del Sant’Uffizio esistono solo due casi di inquisitori morti ammazzati. Questo è uno dei due.
La Matina, frate agostiniano, battezzato a Racalmuto il 15 marzo del 1622, aveva avuto a che fare con l’inquisizione siciliana in diversi momenti della sua vita. Arrestato la prima volta nel 1644, poi nel 1645, poi nel 1646. Dopo pronuncia di abiura fu liberato ma tornò in galera nel 1648 per restarci. E’ un eretico, ma non si sa in cosa consistesse la sua eresia: in nessuna delle testimonianze si specifica con chiarezza quale fosse la sua colpa reale. Incarcerato nello Steri, palazzo in cui era stabilita la sede palermitana del Sant’Uffizio, fra Diego riuscì, nel 1656, ad evadere, ma fu presto rintracciato e riportato in cella. Ed è proprio in questo contesto, nell’anno 1657, che avvenne l’efferato delitto. Scrive Sciascia: Racconta infatti il Matranga che l’inquisitore era andato alle carceri segrete, alla solita ora, per svolgere la solita opera a favore dei rei: la quale espressione è di vasto contenuto, e va dal discorso persuasivo ai tratti di corda. Fra Diego venne condotto, coi ceppi alle mani, davanti al suo inquisitore che, con tutta probabilità, era pronto ad interrogarlo e a torturarlo. Ed è a questo punto che La Matina aggredì e ferì gravemente, proprio coi ferri che gli bloccavano i polsi, de Cisneros il quale, non si sa a distanza di quanti giorni, nell’eterna Patria se ne volò a ringiovanirsi.
Nel 1658 venne così preparato lo spettacolo pubblico. Un gigantesco allestimento, con tanto di palchi addobbati, illustri invitati, processioni, banchetti e quant’altro, per celebrare i processi dei colpevoli di eresia. Tra questi, il più importante, fu proprio quello di fra Diego La Matina. Legato ad una sedia e debitamente imbavagliato, l’agostiniano venne condotto di fronte al tribunale dell’Inquisizione presieduto da monsignor de Los Cameros. Vennero lette le sue colpe: Dunque gli astanti seppero soltanto che fra Diego era eretico, apostata, bestemmiatore; e parricida, poiché aveva ammazzato monsignor de Cisneros che gli era padre nella gerarchia oltre che in amore e carità. Ma secondo manuale nessun altro riferimento doveva esser fatto: nelle sentenze non si cavino li motivi e raggioni che dona il reo.
La condanna è nota: fra Diego venne arso vivo, pronunciando sul rogo una frase riportata da diversi testimoni: “Dunque Dio è ingiusto”.
Il problema, come sottolinea costantemente Sciascia, rimane insoluto: qual era l’eresia di fra Diego La Matina?
Lo scrittore siciliano avanza le sue ipotesi. Fra Diego era rimasto imprigionato nello Steri per quattordici anni: il Sant’Uffizio poteva ben riuscire a fare di un uomo religioso […] un uomo assolutamente irreligioso, radicalmente ateo.
Auria e Matranga sostengono che l’eresia di fra Diego fosse quella di un uomo rozzo, incolto ed ignorante. In verità non sembra così. Tanti teologi, tanti dotti uomini religiosi parlarono con lui per convincerlo a desistere, ma il tenace concetto insito in fra Diego rimase immutato e fermo. Non era un ignorante, tutt’altro; era semplicemente convinto di una visione del mondo e della religione che la Chiesa del tempo, evidentemente, non considerava possibile né legittima. Sciascia è ancora più diretto: E par facile poter formulare l’ipotesi che dalla rivolta contro l’ingiustizia sociale, contro l’iniquità, contro l’usurpazione dei beni e dei diritti, egli sia pervenuto, nel momento in cui vedeva irrimediabile e senza speranza la propria sconfitta, e identificando il proprio destino con il destino dell’uomo, la propria tragedia con la tragedia dell’esistenza, ad accusare Dio. Non a negarlo, ma ad accusarlo.
L’idea che Dio non fosse giusto, nel XVII secolo, è senza dubbio un’idea giudicata come eretica. E fra Diego, probabilmente, non solo aveva fatta sua tale eresia, ma l’aveva anche divulgata. Accusare ed evidenziare l’ingiustizia del mondo e, con essa, quella di Dio, al tempo in cui fra Diego è vissuto, non poteva essere accettabile, molto più opportuno e vantaggioso ridurlo al silenzio.
L’ostinazione, la fermezza, la caparbietà, la forza di un’idea, il tenace concetto caratterizzano i due racalmutesi. Sciascia, evidentemente, ritrova in fra Diego La Matina molto di sé.
Edizione esaminata e brevi note
Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, provincia di Agrigento, nel 1921. La sua prima opera, Favole della dittatura, risale al 1950. L’attività letteraria di Sciascia tocca vari ambiti, dalla narrativa con opere come Le parrocchie di Regalpetra (1956), Gli zii di Sicilia (1958), Il giorno della civetta (1961), Il consiglio d’Egitto (1963), A ciascuno il suo (1966), Il contesto (1971), Todo modo (1974), La scomparsa di Majorana (1975), Candido (1977); alla saggistica: La corda pazza (1970), Nero su nero (1979); alle opere di denuncia sociale ed episodi veri di cronaca nera: Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), I pugnalatori (1976) e L’affaire Moro (1978). Sciascia, nel 1979, accetta di candidarsi al Parlamento Europeo e alla Camera dei Deputati per il Partito Radicale. Riesce in entrambi gli ambiti, ma sceglie l’incarico di deputato, attività che porta avanti fino al 1983 occupandosi in maniera costante dei lavori relativi alla Commissione d’Inchiesta sul rapimento Moro. Le ultime opere di Leonardo Sciascia sono A futura memoria (pubblicato postumo) e Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989). Lo scrittore muore a Palermo il 20 novembre del 1989. E’ sepolto a Racalmuto.
Leonardo Sciascia, “Morte dell’inquisitore”, Adelphi, Milano, 2003.
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