Demir Arzu

Andare a Kobânê

Pubblicato il: 5 Gennaio 2020

“Andare a Kobânê”, opera di Arzu Demir, giornalista e irriducibile oppositrice del regime di Erdogan, rappresenta da un lato un libro di testimonianze – nella prima parte di chi sopravvisse al massacro del 20 luglio 2015 e nella seconda i racconti di vita di giovani rivoluzionarie che partirono e che non sono più tornate – e dall’altro la storia di un falso mistero. Come possiamo leggere a presentazione di questo saggio, efficacemente tradotto da Francesco Marilungo, quasi cinque anni fa in quel di Suruç, capoluogo dell’omonimo distretto turco confinante con la Siria, si trovavano centinaia di ragazzi e ragazze, per lo più militanti della Federazione delle Associazioni Giovanili Socialiste, pronti a partire per Kobânê, la città simbolo della rivoluzione del Rojava: l’intento era quello di contribuire alla ricostruzione di una comunità che aveva dimostrato come fosse possibile tenere testa alle milizie dell’Isis. Milizie, come insegna Alessandro Orsini, tutt’altro che invincibili, militarmente molto deboli ma, fin dall’inizio, favorite da complicità e da eserciti che non hanno voluto combattere. Discorso a parte perciò quello dei combattenti curdi che la guerra l’hanno fatta davvero. Poi, proprio in previsione di una riorganizzazione civile e militare dell’area curda, l’attentato di un “martire” suicida – forse “una”martire diciottenne -, 33 persone uccise, oltre cento feriti e la conseguente censura del regime turco. Da qui la domanda e il falso mistero: “com’è stato possibile per un attentatore e la sua ingente quantità di esplosivo, riuscire ad attraversare il blindatissimo confine turco siriano?”.

È evidente quindi che il libro di Arzu Demir non ha inteso soltanto celebrare le giovani vittime di un massacro, militanti rivoluzionari ma anche persone vissute in “contesti culturali, sociali e politici molto diversi” (vedi Ümmühan Özdemi, già tesserata Akp che, emarginata da tutti, ha ben compreso “la vera natura” del partito di Erdogan). Le storie contenute in “Andare a Kobânê” sono un evidente atto d’accusa “nei confronti dell’ipocrisia turca e dei suoi alleati europei e statunitensi”.

Un esempio leggendo il capitolo “Essere al posto giusto al momento giusto” dedicato alla vicenda di Oğuz Yüzgeç e di Uğur Ok. Dopo aver ricordato che “la rivoluzione del Rojava è salita all’ordine del giorno mondiale con la difesa di Kobane” e che per “Daesh, dopo aver compiuto il 3 agosto 2014 un genocidio sulla popolazione yezida, nelle terre storiche degli yezidi sul monte Sinjar” l’obiettivo principale diveniva appunto Kobane, durante i giorni di difesa della città decine di registrazioni video mostravano “i banditi di Daesh attraversare il confine sotto il controllo dei soldati turchi” (pp.42). Visto questo contesto di tradimenti, di alleanze occulte, di interessi indicibili, allora del tutto comprensibile che Arzu Demir abbia più volte evidenziato i molteplici obiettivi del massacro di Suruç: un messaggio minatorio ai “comunisti” e ai “socialisti” e nel contempo eliminazione di chi andava a supportare autentici antagonisti dell’Isis.

Leggiamo ancora, a presentazione del libro, che “andare a Kobane,  […] continua a essere, più che un messaggio, una sfida lanciata a tutti i regimi che, arrogandosi con la forza il diritto di agire nel nome della democrazia, credono di poter continuare a soffocare le aspirazioni alla giustizia e alla libertà”. In tutta evidenza una lettura politica, non semplicemente “anti-Isis”, e che mette mel mirino l’ormai consolidata dittatura di Erdogan nonché le complicità dei paesi occidentali.

Di primo acchito una lettura che potrebbe apparire fin troppo politica, se ci limitiamo a leggere la prefazione di Demir e il sottotitolo dove si cita la “condanna del fascismo dell’Isis e del regime di Erdogan nella storia e nella memoria”. Il “fascismo” è diventato ormai da tempi immemori un termine usato in tutte le salse, privo ormai della sua connotazione storica (si veda il più recente saggio di Emilio Gentile), ma che probabilmente è utile al lettore di sinistra di bocca buona – da qui la scelta editoriale della Red Star Press – ad identificare un avversario, qualunque esso sia. Proprio riguardo il “fascismo dell’Isis”, tirato in ballo recentemente nel parlamento di Londra, qualcuno potrà forse ricordare le polemiche che ne sono conseguite e la reazione tranchant del nostro Massimo Cacciari: “quelli erano fenomeni occidentali, sono situazioni completamente diverse, fenomeni storicamente incomparabili […] Si è dimenticato il rigore dei propri idiomi, anche questo è il segno del tramonto dell’Occidente”. Se ancora ancora il termine può avere un qualche senso con l’Akp di Erdogan, ormai padrone di un regime autoritario, riferito all’Isis sa quasi di approccio moderato: considerando cosa aveva in mente e cosa ha fatto il sedicente Stato islamico, allora più coerente tacciarlo di nazismo o stalinismo.

Quello che semmai risulta particolarmente interessante di questo saggio di Arzu Demir è l’aver evidenziato il carattere femminile della rivoluzione del Rojava e nel contempo aver testimoniato l’autentica voglia di cambiamento politico e personale – forse neanche sempre di esplicita rivoluzione – dei giovani che sono stati coinvolti nel massacro di Suruç. Come per dire: l’ideale di giustizia non può essere certo soffocato dal suicidio un “martire” fanatico e da coloro che lo hanno usato cinicamente.

Edizione esaminata e brevi note

Arzu Demir, nata a Istanbul nel 1974, è nota per i libri dedicati alle più importanti questioni sociali del Medio Oriente, per i quali è stata costretta a lasciare la Turchia e a chiedere asilo politico in Belgio, dove risiede attualmente. Oltre ad “Andare a Kobânê”, tra le sue opere, tradotte in italiano dalla Red Star Press, il volume “La rivoluzione del Rojava” (2016).

Arzu Demir, “Andare a Kobânê”, Red Star Press (collana: Unaltrastoria), Roma 2019, pp. 169. Traduzione di Francesco Marilungo.

Luca Menichetti.  Lankenauta, gennaio 2020