Farhadi Ashgar

Il Passato

Pubblicato il: 8 Novembre 2022

Marie freme dietro un vetro trasparente.

È giunta in aeroporto per prendere Ahmad che appare spaesato, esitante al punto da chiedere informazioni sulla via d’uscita.

Non la vede.

Marie non desiste, si dimena in tutti i modi, battendo il pugno, gesticolando.

E desidera apparire al meglio tanto da nascondere la fascia elastica che le cinge il polso.

Chiedendo aiuto ad una passante, riuscirà finalmente ad attirare l’attenzione di Ahmad, che alla sua vista si risveglia dal torpore.

Il suo sguardo si posa con dolcezza sulla donna, che dopo aver ceduto al languore, lo attira a sé.

Corrono sotto la pioggia e poi si rifugiano in auto, lanciandosi battutine proprio come due adolescenti imbranati.

Ed ecco lo schianto ed il titolo del film ‘Il Passato’.

Credo che Ashgar Farhadi, il regista, abbia voluto metterci subito in guardia.

L’Amore non è una storia semplice ma piuttosto una favola nera.

Una di quelle che tutti viviamo almeno una volta, con le farfalle allo stomaco che diventano bruchi indigesti.

Marie è l’eroina indiscussa, la guerriera che rincorre l’uomo della vita; che perde innumerevoli volte le sue battaglie senza darsi per vinta. La relazione con il padre delle due figlie va in fumo, così come quella con Ahmad, che lascia Parigi per tornare in Iran.

È quest’ultimo l’antieroe del film, il pavido, l’uomo ai margini del tumulto familiare; il disertore che agita bandiera bianca.

Il suo ritorno è preteso per firmare le carte del divorzio e poter imbarcarsi in un’altra impresa, l’ennesimo matrimonio.

La scelta è caduta su Samir con delle premesse tutt’altro che rosee; l’uomo, che vive col figlio Fouad a casa di Marie, è ancora sposato. Più correttamente è quasi vedovo visto che la moglie, in coma, vive attaccata alle macchine di un ospedale.

Samir infligge sofferenza.

Perché scopriamo che la consorte ha tentato il suicidio dopo aver scoperto la sua relazione clandestina.

Perché vediamo che Lea, la figlia maggiore, non riesce più a viver bene in casa mal sopportando la sua ingerenza.

Perché capiamo che ama ben poco Marie; sta con lei perché avranno un bambino e dopotutto una madre serve pure a Fouad.

Potremmo definirlo carnefice, il prescelto per il ruolo di cattivo.

Ma i verdetti sono spesso fuorvianti perché dipendono da un giudice, da chi dirige la trama.

L’autore iraniano riesce a smuovere le nostre certezze e nel finale, struggente, indimenticabile, ci fa rivalutare Samir.

La sua unica colpa è, al pari di Ahmad solo l’indolenza, la vera macchia di peccato da cui nessuno si salva, neanche Marie.

Persino lei che sembra signoreggiare maestosa sulla mollezza maschile, nelle battute finali appare meschina, supplicante nei riguardi del suo nuovo amante o soltanto incapace di rischiare d’essere felice stracciando la richiesta di divorzio.

Berenice Bejo è la protagonista perfetta, non a caso è stata premiata a Cannes come miglior attrice.

Il suo personaggio attraversa abissi emotivi che, nonostante i numerosi picchi collerici, riservano al non detto le reali ragioni del cuore. La naturalezza con cui  la Bejo riesce a sorreggere il pathos struggente del film è sbalorditivo.

Le rappresentazioni maschili sono meno strutturate e intense, seppur Tahar Rahim (Samir) ci riservi i mezzitoni più interessanti.

L’attore per gran parte della pellicola ci abitua al suo monosillabismo, costringendoci a scrutarlo per capire cosa lo smuova. I suoi occhi ingabbiati anticipano efficacemente il preludio di una lenta rivelazione. La crudeltà verso la compagna  metterà in piazza la sua anima ferita da un sentimento mai sopito.

Come dicevo è questa una fiaba realistica o semplicemente una vita che assomiglia tanto alle nostre.

Farhadi riesce a emozionarci così tanto proprio perché ci sbugiarda.

Crediamo romanticamente nella magia di un incontro fatato ma poi ripieghiamo sul primo appuntamento che ci capita.

Rincorriamo le persone per paura di restare soli o scappiamo perché temiamo di esporci.

Rimaniamo bambini monchi ma perdiamo la virtù più bella; quella di essere autentici.

Difatti a questo triste teatro di adulti mancati fanno da contraltare gli imberbi, in particolare Fouad e l’adolescente Lea.

Entrambi difendono l’insopportabilità del loro dolore, non nascondono i loro traumi e hanno il coraggio di urlare di ribellione (e non per frustrazione).

Proprio gli ‘innocenti’ rappresentano il vero motore narrativo, scuotono i grandi, li costringono a guardare in faccia le miserie.

Trovo di particolare sensibilità l’attenzione al contributo dei piccoli e la bellezza dei ruoli costruiti sui bambini.

In particolare sul piccolo interprete di Fouad (Elyes Aguis); i suoi no contro le egoistiche dittature risvegliano la memoria di chi è stato indifeso e non ha dimenticato.

Ed eccoci pertanto a fare i conti anche noi con il Passato e la sua carica catartica.

La nostra esperienza viene impressa in un nastro indelebile.

Facciamo il possibile per piegazzare le parti sofferte in un cantuccio, riempiamo i buchi lasciati da altri con qualcuno che silenzi il lutto.

Ma guardare la strada percorsa, senza mentirci, non può che farci bene.

Il lavoro di Farhadi ci vuol ricordare che niente può essere cancellato, come suggerito dai tergicristalli dei titoli di testa.

Dobbiamo far pace con i nostri spettri, studiarli bene e conviverci.

Ci suggeriranno di non imbatterci nelle solite buche.

Diventeranno nostri buoni amici.

Non subito.

Regia di Asghar Farhadi, con Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Pauline Burlet, Elyes Aguis, Jeanne Jestin. Titolo originale: Le passé. Genere Drammatico, – Francia, Italia, 2013, durata 130 minuti.

 

Edizione esaminata e brevi note

Asghar Farhādi è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico iraniano. Due suoi film hanno vinto l’Oscar al miglior film straniero, Una separazione nel 2012 e Il cliente nel 2017.

https://www.imdb.com/title/tt2404461/?ref_=vp_close

https://it.wikipedia.org/wiki/Il_passato_(film_2013)