Qualcuno di voi ritiene credibile che, quando nel corso del 1993 furono compiuti gli attentati mafiosi, nessuno degli esponenti del governo avesse consapevolezza del ricatto mafioso a suon di bombe? Se sì, allora farete bene a non avvicinarvi nemmeno di striscio al nuovo libro di Saverio Lodato e Nino Di Matteo; perché con il loro “colpo di spugna” criticano senza alcuna remora la sentenza di Cassazione che ha mandato assolti “per non aver commesso il fatto” tutti gli imputati nel processo sulla trattativa Stato-Mafia. Critiche più che legittime – principio peraltro ribadito anche dalla sentenza del 9 marzo della Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo – ma che dalle nostre parti, dai nostri media spesso vengono interpretate in maniera particolare: incriticabili quando si assolve un potente, criticabili quando si condanna un potente. L’abbiamo già visto con le vicissitudini giudiziarie di un celeberrimo imprenditore sceso trent’anni fa in politica.
Ma quello che più interessa del libro intervista di Lodato- Di Matteo, oltre al vademecum sull’intera vicenda della trattativa, sono le motivazioni alla base del dissenso di Di Matteo (e di Lodato), che fino ad ora sono state coperte dal quasi unanime plauso della grande stampa sull’esito della vicenda, con tanto di insulti nei confronti dei pubblici ministeri come appunto Di Matteo. Plauso che viene interpretato come vizio ormai secolare dell’informazione mainstream “capace di rappresentare e consolidare nell’opinione pubblica una verità preconfezionata che falsifica o ignora quella reale. È accaduto con il processo Andreotti e, in modo diverso ma ugualmente subdolo, con le vicende giudiziarie che hanno riguardato Marcello Dell’Utri” (pp.24). In pratica, una sorta di autodifesa collettiva di tutta la classe politica, ben supportata dai giornalisti di riferimento. Il punto centrale del “colpo di spugna” rimane, a prescindere da tutte le necessarie denunce nei confronti di tutti i denigratori (“Il Foglio”, Giuliano Ferrara, il prof. Costantino Visconti che si augura che Di Matteo e Lodato non vengano più invitati a parlare nelle scuole) la contestazione, in punta di diritto e di logica, della sentenza della Cassazione che ha mandato definitivamente assolti Mori, Subranni, De Donno e Dell’Utri.
Innanzitutto si osserva, a differenza di quanto riferito dai media (“La trattativa Stato-mafia non è mai esistita”), che fin dalla sentenza di appello, pur assolvendo gli imputati, è scritto che la trattativa fu effettivamente portata avanti, ma senza dolo, in quanto “mossi da intenzioni bonarie” (pp.85). Sentenza di secondo grado che, come ricorda Lodato, pur trattando con parole dure Mori e De Donno come “due ragazzacci che hanno strafatto”, giunge a mettere nero su bianco che non fu ordinata “la perquisizione del covo di Riina in via Bernini per lanciare un segnale di pace con Bernardo Provenzano che in quel momento era latitante” (pp.91).
La Cassazione invece è andata oltre. Anziché limitarsi a un rigoroso controllo di legittimità della sentenza di Palermo, rigettando anche la richiesta di ulteriori approfondimenti, ignorando addirittura il contributo di conoscenza offerto da Napolitano, riconducendo “l’operazione Ciancimino” ad una normale attività di polizia giudiziaria, ricostruisce letteralmente fatti già accertati, arrivando “a sostenere che non c’è prova che il governo, anche uno solo della compagine governativa, abbia avuto consapevolezza del ricatto mafioso a suon di bombe e attentati” (pp.41). In sostanza, come nel caso dell’assoluzione di Dell’Utri, oltretutto si sarebbe assistito ad una parcellizzazione delle valutazioni, isolando i fatti gli uni dagli altri, “prassi diffusa quando non si vogliano assumere decisioni delicate che rischiano di diventare dirompenti” (pp.58). Proprio la prassi osteggiata da Falcone e Borsellino, i primi a capire “con il maxiprocesso, che spezzettare e atomizzare le indagini su singoli fatti criminosi aveva da sempre costituito un metodo fallimentare, favorendo l’impunità di mafiosi e loro complici” (pp.59).
Invece un approccio di questo tipo, con l’accettazione del dialogo tra Ciancimino e Mori, secondo Di Matteo, rappresenterebbe un vero e proprio riconoscimento dell’autorità mafiosa da parte dello Stato. Opinione peraltro condivisa da tutti quei cittadini che fino ad ora non si sono fatti influenzare da quelle gogne mediatiche che hanno colpito per anni i pubblici ministeri del processo e che soprattutto, come ci ricorda Lodato, sono più che consapevoli del monito sottostante l’operato dei cortigiani: “Il Potere non si tocca, i potenti, anche se colpevoli, hanno da restare impuniti; i magistrati non possono spingersi oltre la cattura dei ladri di galline”.
Edizione esaminata e brevi note
Nino Di Matteo, (Palermo, 1961) è in magistratura dal 1991. Pubblico ministero prima a Caltanissetta e poi alla Procura della Repubblica di Palermo. Dal 2017 alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Da ottobre 2019 è membro del CSM. Vive sotto scorta dal 1993. Si è occupato di molte delle più delicate indagini di mafia: dalle stragi del 1992 agli omicidi dei giudici Chinnici e Saetta, dai rapporti tra mafia e politica a Palermo all’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia.
Saverio Lodato, (Reggio Emilia, 1951), giornalista e saggista, è autore di libri fondamentali sulla Sicilia e sulla mafia, tra cui La mafia ha vinto (intervista/testamento di Tommaso Buscetta, Mondadori), La linea della palma (con Andrea Camilleri, Mondadori), Il ritorno del principe (con Roberto Scarpinato, Chiarelettere) e, in BUR, Quarant’anni di mafia.
Nino Di Matteo, Saverio Lodato, “Il colpo di spugna”, Fuoriscena, Milano 2024, pp. 112.
Luca Menichetti. Lankenauta, febbraio 2024
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